Cuore di Micia
Avevo affittato una casa sulla scogliera. Una vecchia casa in cui il rombo del mare penetrava denso di suoni straziati che facevano sussultare le travi sconnesse dei pavimenti, per poi gorgogliare ed estinguersi nelle tubature del vetusto impianto ottocentesco. Mi sentivo confusa ed impaurita: per la prima volta vivevo da sola. Ma, alla luce di ciò che avvenne, non si può dire che fossi sola.
Avevo lasciato Firenze promettendo a mio marito che sarei tornata solo quando e se avessi finito il libro: quel libro al quale, con esiti incerti, lavoravo ormai da due anni, fra l'esaltazione di una pagina ben riuscita e la sconfitta di cento giornate trascorse in testarda contemplazione del foglio bianco orgogliosamente inserito nella macchina da scrivere. Mio marito, che mi sapeva molto paurosa e incapace di sopravvivere più di una notte in casa da sola, era preoccupato e scettico sul mio soggiorno. Preoccupata lo ero anch'io: la paura a rimanere sola di notte era radicata in me fin dall'infanzia e in maniera così tenace che non ero mai riuscita a estirparla. Non i ladri o gli assassini temevo, ma le ombre, le proiezioni cupe che si alimentano dalle tenebre e dilagano nella mente, affogandola in oceani di oscurità da cui soli emergono i volti ghignanti di trapassati, o pallide larve sussurranti inviti a procedere nel nulla.
Comunque era tutto deciso: versato all'agenzia l'anticipo per tre mesi d'affitto, spediti i bauli. Rimanevano i saluti, un bacio, molte lacrime: la mattina successiva sarei partita.
"Ho deciso che la micia verrà con te" mi disse Augusto a bruciapelo.
Mio marito possiede molto senso dell'umorismo e io credetti che scherzasse e nemmeno risposi, ma mezz'ora dopo il fatidico annuncio mi accorsi che aveva detto la verità: nell'ingresso troneggiavano in bella vista il cestino, le ciotole e tutto il necessario per il viaggio della nostra gatta. A lei non era sfuggita la minaccia che le pendeva sul capo e, con espressione offesa, stava raggomitolata in segno di protesta sul gradino preferito della scala di legno accedente al mezzanino. I suoi occhi fissavano il giardino, e la nostalgia già covava nelle pupille color calendula.
"Augusto, non so che cosa ti sia venuto in mente!" urlai, irrompendo nello studio al pianterreno.
"Perché?" mi domandò, appena alzando la testa dal libro ammonticchiato in cima alla pila che aveva davanti.
"Perché? E mi chiedi perché!" incalzai. "Lo sai che la Micia detesta viaggiare, e che non resiste lontana da te. E poi sarò abbastanza indaffarata a lavorare e a cercare di tenere a bada i miei terrori. Dove credi che io possa trovare l'energia per proteggere anche lei?"
"È più probabile che sia la Micia a proteggere te" rispose laconico mio marito e sparì, inghiottito dalla parete di libri che vegliava sulla sua tranquillità.
Sapevo che non gli avrei più cavato una parola e attesi il momento della cena. La Micia appariva sempre più imbronciata: non aveva alcuna fiducia in me. Al dolce ritornai sull'argomento: prima energicamente, protestando le mie ragioni, poi in maniera via via più debole. Al momento di alzarci da tavola capii di essere stata sconfitta: la Micia mi guardava con palese disprezzo.
Partimmo in un'alba di fine settembre sotto una pioggia fine: io infagottata nell'impermeabile bianco che non mi tolsi nemmeno per guidare, lei meravigliosamente coronata dalla pelliccia color notte, qua e là spruzzata d'oro, che a tratti si distendeva in strisce e, sulla pancina, s'illuminava in una dolce, morbida radura setosa. Solitamente piangeva, ma quel giorno rimase a lungo in silenzio, con lo sguardo annoiato. Dopo varie ore, provai a ripetere una carezza: fece le fusa. Mi aveva perdonato.
Arrivammo che faceva notte: Il luogo era solitario e, al rumore dell'auto, la casiera, che mi aspettava, mi venne incontro. Sarebbe stata lei a provvedere alle pulizie e al mangiare: mi conveniva farmela amica. Così, ricacciata indietro la stanchezza, risposi a tutte le sue domande e accettai di buon grado i complimenti alla Micia che intanto, messa a forza nella gabbia per essere trasportata in casa, manifestava uno scoraggiante cattivo umore. La donna amava i gatti di quell'amore smanceroso che loro mal sopportano, e volle sapere tutto. Le spiegai che era una femmina, pesava quattro chili e, per quanto si chiamasse Priscilla Eusebietta Felicina, mio marito e io la chiamavamo Micia o Cina. Durante questa sorta di presentazione, l'atteggiamento dell'interessata non appariva affatto benevolo, tanto che Isolina, la casiera, non azzardò quella carezza che a tratti le spingeva la mano in avanti. Finalmente se ne andò e io crollai su una poltrona senza nemmeno levarmi l'impermeabile. Faceva freddo e l'aria era umida. Mentre consideravo mestamente se non fosse il caso di ripartire subito per Firenze, la Micia, dopo essersi lavata con molta accuratezza (cosa che io ancora non avevo fatto), decise d'ispezionare quei vecchi, polverosi ambienti. E sparì. Per agevolarla, le aprii tutte le porte, compresa quella della cantina. Con un sospiro, alla fine, mi tolsi l'impermeabile.
Ricomparve un po' prima di mezzanotte. Ero nella vasca, piacevolmente sommersa dall'acqua calda, quando la vidi spuntare, già padrona del luogo. Girovagò qua e là per il bagno, e poi si distese sul mio accappatoio, nido di profumi casalinghi, e si addormentò.
Il pallido sole del mattino non servì a riconciliarmi col mondo. Avevo trascorso una notte orribile: a ogni scricchiolio o colpo di vento un fantasma si staccava dai miei pensieri e si metteva a vagabondare per le stanze. Quattro volte mi ero alzata in cerca della Micia , e sempre l'avevo trovata tranquilla che dormiva; inutile svegliarla: nella sua mente non esistevano mostri. Alle sei, quando mi ero appena addormentata, un'esplosione di luce in pieno viso mi aveva fatto sobbalzare: con l'interruttore dell'abat-jour fra i denti, la mia amica pelosa mi guardava interrogativa: che cosa aspettavo a darle la pappa?
Accolsi Isolina come una benedizione: erano le otto e fino a mezzogiorno la casa non sarebbe ripiombata nella solitudine. Decisi che sarei uscita a dare un'occhiata in giro. Fuori il salmastro, che spinge il mare sulla pelle, mi assalì con forza. C'era ancora vento, ma il sole creava isole di amenità nel plumbeo del cielo.
Camminai a lungo, evitando di pensare alle notti che, una dopo l'altra, mi si prospettavano. Stavo cercando piuttosto di concentrarmi sul mio libro cui avevo deciso di rimettermi a lavorare quello stesso pomeriggio, quando mi colpì l'alta figura di un uomo che camminava in cima alla scogliera. In quel punto la costa si alzava ripida sul mare che si offriva in basso a percuotere la spiaggia, senza che la bassa vegetazione ne mitigasse la vista. L'uomo si fermò, dando le spalle allo strapiombo e i nostri occhi s'incontrarono. Mi sembrò diverso, un campione d'umanità diversa, ma non saprei dire perché. Mi colpì, nel volto, un che d'indefinito e pallido, ma la distanza forse dominava il gioco di specchi in cui si perdevano i tratti di una faccia più comune. Si mosse con indolenza, le lunghe gambe perse nei pantaloni larghi come alberi di nave festonati dalle vele.
"Buongiorno" disse con voce tranquilla, appena un po' bassa. "È nuova di qui? Non l'ho mai veduta."
Una musica mi colpì. Una nenia misurata e trattenuta che colorava le sue parole d'indifferenza.
"Sì. Sono arrivata ieri sera. Ho preso in affitto la vecchia villa del dottor Waring…"
"È sola?"
"No. Non sono sola" risposi troppo in fretta, e poi mi chiesi se avessi mentito o detto la verità, tenendo conto della Micia.
"Qui non c'è mai anima viva" continuò. "Mi domandavo se qualche volta potrei venire a trovarla. Ma dato che lei non è sola, forse la disturberei…"
"Non è questione di disturbo: sono venuta in questo posto per lavorare e non ricevo visite. Buongiorno."
Mi allontanai velocemente senza voltarmi. Sapevo, mentre imboccavo la discesa, che lo sguardo dell'uomo mi seguiva, indovinavo l'intensità della sua freddezza, il rancore per il mio diniego. E mi chiesi, con una punta d'inquietudine, se non avessi fatto male a offenderlo.
Il resto della giornata trascorse senza incidenti. Isolina aveva preparato un ottimo pranzo che divisi con la Micia. Nel pomeriggio, mentre stavo rileggendo le ultime pagine del mio dattiloscritto, incominciò a piovere. Pioveva ancora quando presi la macchina per andare in paese a telefonare ad Augusto. Al ritorno la pioggia si era fatta violenta e solo per un pelo scansai una persona proveniente dal vialetto che conduceva a casa mia. Cioè a casa del dottor Waring. Ci si vedeva pochissimo, ma con l'intuito riconobbi lo sconosciuto della mattina.


Un'altra notte. Altri incubi. Nere figure velate si affollavano nel vano della finestra di fronte al mio letto. Mi davano la schiena e poi, volgendosi, sotto il sudario rivelavano il teschio con lembi di pelle macerata, livida. Mi svegliai di soprassalto e, nel cercare il tasto della luce, la mia mano scontrò nella morbida compattezza della Micia che alleggerì il silenzio con le sue fusa. La presi in collo e mi trasferii nel soggiorno davanti alla televisione, dove ci addormentammo tutt'e due, cullate dalle note di un vecchio film di Gene Kelly.
Isolina conosceva tutto e tutti nel giro di molti chilometri, ma restò perplessa, la mattina successiva, quando le chiesi qualche informazione sull'uomo che avevo incontrato.
"Non l'ho mai visto e non so chi sia" ammise a malincuore, come se del suo non essere informata avesse colpa l'atro, "ma domanderò a mia sorella che lavora alla posta, e le saprò dire."
Invece non seppe dirmi nulla. Passavano i giorni e non riuscivo a raccogliere la benché minima notizia sull'uomo della scogliera, come lo chiamavo io. Pareva che nessuno l'avesse notato, né si sapeva dove abitasse. La poveretta non si dava pace per non potermi essere utile, e poi quell'insuccesso aveva inferto un colpo al suo prestigio di pettegola, e ne soffriva.
L'uomo comunque non l'avevo più incontrato nemmeno io e cominciavo a scordarmene. Il lavoro procedeva bene; il romanzo stava prendendo forma: non dovevo permettere che sciocche inquietudini mi distraessero. In casa c'era un topo e la Micia si divertiva a fargli la posta senza torcergli un pelo: credo che lui si fidasse e avesse accettato il gioco. Tutto andava per il meglio.


Lo rividi circa dieci giorni dopo. Pallida figura nel cielo opalino dell'alba, stava nell'esatto punto dove l'avevo visto la prima volta, e mi girava le spalle. Feci per tornare indietro, ma mi aveva sentito e si girò. Aveva un coltello nella mano destra.
"Buongiorno" disse con voce affaticata, quasi ansimante. "Viene qui a parlare con Dio?"
"A parlare con Dio?" ripetei mio malgrado, incredula.
"In tutta la costa questo è il luogo più adatto: le parole le porta su il vento e Dio subito risponde. Risponde a me perché sono stato prescelto. Prima che lei lo scoprisse, ero il solo a conoscere questo posto. Ora anche lei vorrà venirci, e non sarò più solo mentre parlo con Dio…"
"Per carità, " lo interruppi "non ho nessuna intenzione di rubarle il posto o di turbare la sua solitudine. Continui a parlare con Dio: non la disturberò mai più."
"Davvero? È molto gentile. Davvero molto gentile. Parlerò di lei a Dio. Lui ascolta sempre quello che gli dico. Forse vorrà parlarle… " Con il dorso della mano si asciugò il sudore che gli copriva il viso, colando, dalle palpebre, sulle iridi azzurre immerse nelle cornee infiammate, corruschi laghi di delirio.
Non sapevo come fuggire. Mentre cercavo le parole, mi accorsi del sangue sulla camicia e sui pantaloni. Forse impallidii.
I suoi occhi si spostarono dal mio sguardo al coltello.
"Lo porto con me" si giustificò "per incidere preghiere nelle pietre, o sui tronchi. E per tratteggiare il profilo del mio cuore. È importante, il mio cuore. È il più grande, il più forte che ci sia al mondo. Per questo Dio mi ha scelto come confidente. Non ci crede?"
"Sì. Sì, certo, ci credo" mi affrettai a rassicurarlo.
"Bene. È bello che lei ci creda. Che cosa stavo dicendo? Ah, le spiegavo come uso il coltello. Vede, mi sono ferito casualmente: volevo lasciare l'impronta del mio cuore su una pietra che era troppo liscia e la lama mi è sfuggita…"
"Stia più attento: non deve farsi male" riuscii a balbettare. "Si sta facendo tardi; devo salutarla. Buongiorno."
"Arrivederci. Racconterò a Dio di lei. Posso dire che è mia amica? Non ho altri amici."
"Sì" risposi, e già camminavo per la discesa, cercando di non tradire la voglia di correre.
La notte tornarono gl'incubi. In serata avevo raccontato tutto ad Augusto e il fatto che lui mi avesse quasi ordinato di rientrare subito a Firenze non era servito a infondermi coraggio: mio marito non è tipo che si preoccupi per nulla. Comunque non sarei fuggita. Non ancora.
I fantasmi tradirono quel terrore che non volevo confessare a me stessa: indossavano sudari gualciti, intrisi di sangue, e si laceravano l'un l'altro a coltellate, afflosciandosi e ricomponendosi ininterrottamente. La Micia era in cantina a cercare il suo amico topo; alla televisione davano Psyco: furono ore poco allegre.


"Cuore di Dio!" trasalì Isolina, e si mise seduta perché le tremavano le gambe. "È Tornato cuore di Dio. Non posso crederci."
"Che cosa significa, Isolina? Si spieghi meglio. Lo conosce?"
"Qui tutti lo conoscono, signora. In realtà si chiama Giulio ed è il figlio del vecchio farmacista, una gran brava persona. Pareva un ragazzo dolce, gentile, forse un po' troppo religioso. Stava sempre solo e incideva cuori dappertutto: sui tronchi degli alberi, sulle panche della chiesa, sugli intonaci delle case. Una volta ne incise uno perfino nella statua di gesso di San Giuseppe e il prete si arrabbiò talmente che mandò a chiamare suo padre."
"Con cosa li incideva questi cuori?"
"Quando era piccolo con il temperino, ma dopo cominciò ad adoperare certi coltellacci da cucina con cui puntualmente si tagliava, dato che non erano adatti a quell'uso. Molti lo deridevano e, se qualcuno gli domandava chi fosse la sua innamorata, protestava e scoppiava in lacrime, e poi diceva che non amava nessuna donna, ma Dio. Era convinto che l'Onnipotente gli parlasse di continuo e l'avesse scelto fra tutti gli uomini per merito del suo cuore, che pensava di avere grande e speciale."
"Allora incidere un cuore era un po' come lasciare un marchio?"
"Sì, signora. Un marchio. Come il segno di Zorro. Ma che mi fa dire? Questa è una faccenda seria, una tragedia…"
"Perché una tragedia?"
"Perché una volta Giulio ferì gravemente una ragazza. Si chiamava Fiammetta e forse si era invaghita di lui che, stranezze a parte, era un bel giovane: biondo, alto, distinto. Per un po' i due divennero inseparabili: andavano insieme dappertutto. Ma stavano sempre appartati, mai con altri della loro età. Probabilmente a un tratto Fiammetta si stancò, ma nessuno sa con chiarezza che cosa sia successo. Sta di fatto che, d'improvviso, quel matto non volle più vederla; la insultò più volte in pubblico: le urlava che le donne non piacciono a Dio e che solo l'uomo è fatto a somiglianza del Signore. La mattina di Natale la ragazza fu trovata nel suo letto con una profonda ferita al seno: su una parete, col sangue, era stato disegnato un cuore con una croce dentro."
"Che cosa successe allora?" chiesi rabbrividendo.
"Giulio fu arrestato e confessò subito: sostenne che era stato Dio a ordinargli di punire Fiammetta. Non manifestò alcun pentimento, né volle spiegare di cosa dovesse punirla; tuttavia non venne messo in carcere: era minorenne e, d'altro canto, nel giro di pochi giorni lei fu dichiarata fuori pericolo. La ferita, benché profonda, non aveva intaccato alcun organo vitale; con un sospiro di sollievo, i genitori ritirarono la denuncia: sa come succede, temevano lo scandalo. Un anno dopo la ragazza si è sposata con uno di fuori e qui è tornata assai di rado: abita a Parigi, è molto ricca…"
"E Giulio?"
"Giulio finì per qualche mese in una clinica per matti. Il povero farmacista era così sconvolto che consultò i migliori medici nella speranza che il figlio potesse guarire. Dopo sei mesi il ragazzo fu dichiarato sano di mente e rispedito a casa; il padre lo mandò all'estero: credo che per lui fosse imbarazzante vederselo intorno. Morì poco tempo dopo che il figlio era partito: dalla sua scomparsa nessuno ha più nominato Giulio. E nessuno l'aveva più visto, neanche il suo avvocato: so che la questione della sua eredità è stata sistemata per procura."
"Quanti anni sono passati dall'incidente?"
"Mi faccia pensare…Una ventina; forse più. Giulio a quell'epoca aveva diciassette anni. Se non faccio male i conti, oggi dovrebbe averne intorno a quaranta."
"Forse è davvero guarito e ha deciso di tornare a casa."
"Guarito! Con quello che mi ha raccontato! E non è nemmeno tornato a casa: il villino del farmacista è sprangato come un cimitero deserto: io ci passo davanti tutte le sere e non ho scorto né una luce , né un segno di vita: nessun suono…Niente! Se Giulio sta lì, è entrato da una delle finestre del retro che hanno tutte il telaio marcio e i vetri rotti, e vive come un topo, nel buio, nella solitudine. Dia retta a me, signora: in ogni caso, è più matto di prima. Non gli rivolga più la parola. Se le parla, non gli risponda. E si chiuda bene in casa."
Pensai fra di me che la precauzione sarebbe stata inutile poiché le finestre al pianterreno non erano munite di sbarre e sarebbe stato facile scavalcarle.


La sera riparlai con augusto e gli promisi che sarei partita appena il tempo fosse migliorato: da qualche ora infatti aveva ricominciato a piovere e si era alzata una nebbia che avrebbe reso la guida assai difficoltosa. In ogni modo rimanemmo d'accordo che, se la mattina successiva non mi fossi sentita di mettermi in viaggio, sarebbe venuto lui. Lasciai la cabina sotto una pioggia scrosciante che si stava trasformando in temporale: da lontano si udiva il brontolio del tuono che si dilatava e andava a morire in mare. La mia auto procedeva lentamente in un bianco universo senza appigli: l'oscurità della notte era avvolta in una garza di silenzio. Per la prima volta non riempivo lo spazio di fantasmi: l'angoscia saliva in me da qualcosa di reale, di concreto.
Quando infilai la chiave nella serratura e mi trovai nel grande ingresso, vuoto e male illuminato, provai uno sconforto totale e mi sarei messa a piangere senza ritegno se non mi fosse venuta incontro la Micia, tutta allegra e in vena di giocare, sorridente come sorridono i gatti, con un ironico bagliore nelle pupille e un fremito nelle vibrisse.
Mangiammo chiacchierando. Io parlavo, la Micia faceva le fusa, il tuono brontolava. Inutile dire che ho sempre avuto paura dei temporali, e un po' l'aveva anche la Micia: per quella sera avrebbe rinunciato al topo e sarebbe stata in collo a me davanti alla televisione.
Non era accogliente, il vecchio soggiorno: comunque decidemmo di accontentarci. Sistemate sul divano, scegliemmo un film di nostro gradimento disponendoci, io, alla visione, e lei a una profonda nanna.
Fu un rumore attutito, diverso da quello della pioggia o del tuono, a serrarmi la gola. Non distinguevo più il volto di James Stewart che un attimo avanti aveva riempito lo schermo: percepivo solo il passo esitante di qualcuno che si muoveva in cucina. Desta d'improvviso, la Micia aveva le orecchie divaricate e il pelo ritto sulla schiena in una cresta di drago: la coda sembrava quella di un procione. Con un balzo fu a terra e io, imitandola, mi alzai. James Stewart stava litigando con Claudette Colbert.
Sulla porta, in piedi, come sputato dall'oscurità fonda del corridoio, si profilava Giulio: in mano aveva un cero da altare acceso.
"Buonasera" disse. "Mi dispiace, ma Dio non vuole che lei rimanga qui."
"Allora andrò via" risposi, cercando di controllare il tremito della mia voce. Un dilagante senso di gelo iniziava a paralizzarmi le membra.
"Anche il suo gatto non può stare qui" continuò lui, guardando la Micia. "Non mi piacciono i gatti: non somigliano a Dio e nemmeno le donne gli somigliano. Solo l'uomo è fatto a sua immagine e somiglianza. E io di più fra tutti gli uomini. Io di più … Lo capisce vero?"
"Sì, certo" trovai la forza di rispondere. "E infatti domani partiremo. Sappiamo che il posto è suo e non vogliamo darle fastidio."
"Dovete sparire subito, non domani. Subito. Provvederò io. Ma ora voglio sedermi e farle vedere qualcosa. Poi svanirete."
Si sistemò sul divano, spampanando intorno le lunghe gambe, e poggiò il cero su un brutto tavolino da tè, dopo averlo fatto aderire a un piatto che conteneva l' avanzo di una vecchia scatola di cioccolatini: due o tre cremini rincartati nella stagnola che si sbriciolava.
"Nessuno è in grado di spengere questo cero che brillerà ininterrottamente per tutto il tempo che vorrò. Soltanto io, soffiando col mio alito direttamente infuso da Dio, posso ridurlo all' oscurità. Se soffiasse lei, rimarrebbe splendente e luminoso, incurante del suo fiato che nulla possiede di divino…"
Il cero, di quelli grandi da altare, era poco consumato e prometteva luce per varie ore, ma dovevo escogitare presto qualcosa perché, prima che si spengesse, Giulio sarebbe diventato pericoloso. Ma che cosa potevo fare in quella casa isolata, senza telefono, senza un'arma, e soprattutto senza coraggio? L'algida morsa che mi serrava la gola m'impediva quasi di articolare stente parole che mi morivano sulle labbra.
"Vuole bere un liquore?" osai, balbettando. "È una serata fredda."
"Bere mentre il sacro cero arde! Lei è una stupida femmina. Restare fermi in contemplazione di questa luce purifica l'anima. Se fisserà attentamente il nucleo della fiamma, coglierà l'essenza vitale del volto divino, e accanto, più piccolo ma splendente, scorgerà il mio viso. Li vede? Dica: li vede?"
Stava alzando la voce, sudava, gli occhi arrossati e lacrimosi roteavano sotto le palpebre gonfie; sul volto magro le pieghe tradivano la pelle emaciata: ancora un attimo e la follia punitiva si sarebbe scatenata. Dovevo distrarlo, farlo parlare di sé, secondare la sua vanità.
"Come ha capito di essere simile a Dio? E quando?" domandai, inghiottendo a fatica l'acqua che mi saliva in gola: non era quello il momento per vomitare. Fingendo una tranquillità che non provavo, presi in braccio la Micia e mi sedetti su una poltrona di fronte al divano.
"Non ho intuito subito la mia somiglianza con Dio. Strano. Mi credevo debole, solo. Non ho intuito subito la mia grande natura. Nessuno parlava con me; mia madre era andata lontano e mio padre era sempre in farmacia. Io volevo qualcuno che mi ascoltasse ed è arrivato Dio" rispose, rilassandosi sul divano che cigolò con un gemito di molle rotte. "Da bambino ero come tutti quegli insignificanti moscerini di cui è popolato il mondo. I compagni di scuola mi parevano più felici di me; io non ridevo mai: mi sembrava triste la vita. Poi, un giorno, Dio mi apparve. Stavo guardando una fotografia della mamma, quando mi sentii chiamare. Era Dio. Mi rivelò la mia natura straordinaria. Mi disse di non pensare a mia madre. Le donne da allora per me non sono più esistite. Salvo una, ma nemmeno lei somigliava a Dio."
"Che cos'è di preciso che la rende simile a Dio?" incalzai, perché non pensasse a Fiammetta.
"Il mio cuore. Gliel'ho già spiegato che non somiglia a quello degli altri uomini. È rosso, grande, pulsante…"
"Come quello dei dipinti delle chiese?"
"Sì. Proprio come quello. Grazie a lui posso fare cose straordinarie, come spengere questo cero. Le capacità del mio cuore me le rivelò Dio. Era alto, biondo, luminoso. Pareva me, o io parevo lui. Lo sa che sono l'unico creato a sua somiglianza? Lo sa?"
"Sì, lo so. Tutto ciò è meraviglioso. Lei ne deve essere fiero."
"Lo sono infatti. La potenza che ho è illimitata. Posso tutto, io. La vita, la morte… Posso dare anche la morte. Ho quasi ucciso; mi crede? Dovevo farlo, dovevo uccidere, perché era Dio che me lo aveva comandato… però non sono stato bravo."
Percepii la paura materializzarsi in me. Non desideravo altro che fuggire, ma, se mi fossi mossa, avrei scatenato la sua rabbia. Bisognava far finta di nulla.
"Sul serio lei può spengere questo cero magico?" chiesi.
"Non magico! Santo!" mi corresse scandalizzato, ancora più pallido a causa della collera che penetrava in lui.
Avevo fatto un errore: avrei dovuto stare più attenta.
"Mi scusi. Sono una sciocca: mi sono espressa male. Ma mi dica, lei può spengerlo?"
"Certamente" mi rassicurò, rabbonito. "Gliel'ho spiegato che posso tutto grazie al mio cuore che mi consente azioni che agli altri sono negate. Provi a spengere il cero."
Per fortuna non ero mai riuscita a spengere neppure le candeline delle torte di compleanno, ma, per evitare rischi, soffiai nella direzione opposta di quel maledetto cero che, ovviamente, rimase acceso, a maggior gloria del mio indesiderato ospite il quale scoppiò in una fragorosa risata.
"È inutile" s'inorgoglì, e la sua voce tradiva un'acuta nota isterica. "Solo io ho il potere." Poggiò i gomiti sul tavolino e si mise a fissare il cero con uno sguardo di folle intensità. Gli occhi febbrili tuttavia si aprirono e chiusero più volte, mal tollerando il bagliore della fiamma; poi si acquietarono in una fissità immobile, ipnotica.
Non saprò mai se intendesse spengere prima il cero e dopo le nostre vite. Forse ne aveva l'intenzione, forse intendeva riscattarsi dal suo vecchio errore, ma un tonfo lo distolse da ogni proposito, facendogli alzare repentinamente la testa: la Micia, sfuggita alle mie braccia, era piombata sul tavolo di fronte a lui e lo guardava.
Gli occhi dei cani, miti e terragnoli, senza segreti e tensioni di passato e futuro, non hanno potere sulla dura scorza dell'uomo, ma gli occhi dei gatti che hanno colto vette d'infinito, visto cieli di cristallo dove gli dei adagiano i pensieri, mescolato elle loro iridi il liquido elisir dell'immortalità, possono intaccare la crosta più tenace. Quelli della Micia poterono. Giulio vide il suo abisso nello sguardo di calendula e abbassò il capo, sconvolto da improvvisa vertigine. Fu un attimo di debolezza; la Micia ne approfittò: con un balzo repentino atterrò sul cero e lo spense.
Messo a confronto con la sua mistificazione, svergognato dalla propria debolezza, Giulio incominciò a tremare e fece per alzarsi, mentre la mano correva alla tasca per ritornarne vuota (aveva scordato il coltello?), ma lei, Priscilla Eusebietta Felicina, gli saltò addosso conficcandogli gli zampetti nel petto, ed emettendo un minaccioso, prolungato miagolio.
Cercando di ripararsi, Giulio si alzò. La Micia mollò la presa, ma teneva d'occhio la propria vittima ed emetteva un ringhioso brontolio in crescendo: l'altro scelse la fuga. Lo vidi sparire simile alla folgore dalla parte da cui era entrato con la fitta trama di incubi che si trascinava dietro. Dal rumore intuii che, prima di guadagnare la porta, aveva inciampato in una sedia.
"Miciolina, come hai fatto?" chiesi alla mia salvatrice che si stava detergendo dal pelo ogni più minuta traccia dello sgradevole contatto subito. Mi guardò: nelle pupille rideva un segreto antico, ineffabile.
Mi sedetti sulla poltrona e, per qualche attimo, intorno a me vidi solo oscurità; poi un caldo improvviso, una testina pelosa che si adagiava nel vano del mio braccio, m'impedirono di svenire. Voleva, la Micia, riprendere la nanna interrotta. La baciai fra le orecchie, sulla prodigiosa EMME dei soriani.
Alla televisione James Stewart accostava le sue labbra a quelle di Claudette Colbert.


Da "Gatti Magici. 40 Supergatti di Nuovi Scrittori", Milano, Felinamente, 1997

Vanità

La donna si guardò allo specchio, passandosi le mani fra i capelli sgualciti. Le unghie cremisi sollevarono dalla cute alcune scaglie di forfora.
"Maledizione!" esclamò, pensando che doveva andare dal parrucchiere e non aveva una lira. Un disastro. La sua testa era un disastro. I capelli sporchi, visibilmente troppo bianchi dove erano ricresciuti, male adattandosi al connubio con una tinta mogano rossastra che ne deturpava le lunghezze, e il taglio da bottega di periferia ormai privo di qualsiasi linea le conferivano un'aria da vecchia. E lei vecchia non era. Non molto vecchia, almeno. E poi tutti le assicuravano che portava benissimo i suoi anni. Se solo avesse potuto avere un po' di cura di se stessa… Ma Alberto non capiva. Insegnava all'università, suo figlio, e guadagnava bene, eppure la teneva a stecchetto, le dava i soldi col contagocce. La scusa era sempre la solita: aveva paura che lei riprendesse a giocare. Inutile giurargli e spergiurargli che, col poker, aveva chiuso: non le credeva. O forse, per comodità, faceva finta di non crederle. Così, giorno dopo giorno, tutto quello che poteva cavare da Alberto erano poche lire per la spesa, accompagnate dalla lista dettagliata delle varie leccornie che avrebbe dovuto comprare per Tolomeo. Già, Tolomeo… Viveva bene, quel gattaccio. Coccolato e vezzeggiato come una puttana. E lei invece…
Quasi evocato dall'astio di Giovanna - così si chiamava la donna - Tolomeo comparve silenzioso e, incastonato nella cornice della porta, rimase a fissare con signorile distacco l'antipatica madre del suo adorato padrone. Grigio peltro, con il pelo fitto e morbido e la testa rotonda, voluminosa nella densità della pelliccia che gli faceva corona, Tolomeo era proprio un magnifico esemplare di felino casalingo. Di animo sagace, ma gentile e affettuoso, gran conoscitore di segreti che sapeva mantenere nel più rigoroso riserbo, il micio passava le sue giornate in attesa di Alberto. Per lui erano il gioco, la confidenza, le fusa, le carezze, la fiducia, le rapide corse e i salti, un muto, intimo linguaggio intessuto di strizzatine dell'occhio destro e di brevi, umide nasate sul dorso della mano. Il gatto viveva in attesa della sera. Solo a sentire il rombo familiare dell'auto che imboccava il vialetto le sue orecchie si drizzavano come i ciuffi di un gufo; gli occhi brillavano e la coda celebrava col tremito imminenti felicità, al calpestio dei passi sempre più vicini e al rumore della chiave finalmente nella serratura. Durante il giorno, se non dormiva, Tolomeo si annoiava con pazienza. Preferiva consumare il tedio in lunghi, smisurati sbadigli, piuttosto che dare confidenza a Giovanna che non gli piaceva, gli comunicava anzi una vaga inquietudine appena registrata da un rapido fremito di vibrisse ogni volta che s'accostava troppo all'orlo della vestaglia di lei, densa di aromi e profumi dozzinali misti a un acre odore di cibo riscaldato.
"Mi guardi, eh, brutta bestiaccia! Godi nel vedermi mal ridotta, ma aspetta e vedrai…Giuro che un giorno ti darò una lezione come neanche te la immagini…"
Indifferente, come molti suoi simili alle minacce proiettate nel futuro, per tutta risposta Tolomeo incominciò a leccarsi accuratamente uno zampetto, lì dove il sospetto di una pulce gli procurava un certo prurito. Quello stesso zampino ben inumidito lo strofinò poi, con grande precisione, prima su un orecchio e poi sull'altro. Infine, soddisfatto, si stirò e, con un balzo, raggiunse la poltrona più vicina: la sua preferita per arrotarsi gli unghielli.
"Smettila di rovinare il velluto" urlò Giovanna fuori di sé. "Smettila, hai capito?"
Tolomeo, volubile nelle proprie occupazioni, già si predisponeva a un sonnellino e, acciambellandosi sul tessuto morbido, si chiuse nel cerchio di se stesso, negandosi al mondo intero, e soprattutto a quella donna dalla voce stridula, più fastidiosa perfino del latrato di un cagnaccio.
Ma quella era una nemica pericolosa e il gatto aveva fatto l'errore di sottovalutarla.
Per un attimo Giovanna considerò con astio la bestiola addormentata. Poi l'astio si mutò in un lampo di cupidigia che le accese gli occhi di stolta cattiveria. Novantamilalire! Qualcuno le aveva detto che all'Istituto della vivisezione, in quel palazzone grigio nella strada appena passato il semaforo dopo l'ospedale vecchio, per un gatto pagavano novantamila lire: proprio la cifra che le occorreva per il parrucchiere.
L'esitazione durò un secondo; di scrupoli non ve ne furono. Lesta, gioiosa, andò in bagno a sistemarsi la dentiera di candide zanne nella bocca che poi coronò con abbondante rossetto. Si truccò velocemente il resto della faccia, senza lavarsi, come faceva sempre. In camera, l'armadio, aperto senza la consueta cautela, le vomitò addosso un intrico di giacchette, gonne, vestiti, golfini, camicette e borse che lei ricacciò all'interno con un calcio, dopo aver estratto dal groviglio un cencioso abito arancio dove si accampavano sventurati e giganteschi fiori violacei. Lo indossò, modellandosi allo specchio i cuscinetti di grasso accumulato dove la stoffa stringeva senza alcuna accortezza. Dal comodino emersero le scarpe più eleganti: di vernice, col tacco a spillo. Le mise ai piedi: era pronta.
Adesso bisognava infilare quella bestiaccia nel cesto. Un'impresa. Per suo figlio sarebbe stato questione di un attimo, ma a lei, si sa, il gatto non voleva ubbidire. Silenziosa, andò nello stanzino e, sempre senza far rumore, prese la cestina. Tolomeo, ignaro, dormiva. Lei gli fu sopra, con mani dalle innumerevoli dita, lo immobilizzò, lo catturò, lo imprigionò ancora assopito. Secco come una sentenza senza appello, si udì lo scatto della cerniera.
Traballando sui tacchi in quella che riteneva la credibile imitazione di una diva, scese le scale rischiando di cadere a ogni passo, e sudando per il peso del gatto e l'imbarazzo dei suoi miagolii.
Il posto non era lontano e ci giunse velocemente, inciampando e annaspando, ma illesa e vittoriosa. Tolomeo non aveva più voce. La consegna non fu gradevole: quelle persone in camice bianco, invece di ringraziarla, sembravano giudicarla. E senza simpatia. Le fecero un sacco di domande. Dove si era procurato un così bell'esemplare? Non l'aveva mica sottratto a qualche famiglia? Lo dicesse, perché loro non volevano noie. Infine li convinse. Li convinse che nessuno avrebbe reclamato. Nessuno protestato. E intascò.
Si diresse verso il parrucchiere, portandosi via, nell'ultima rapina, il muto sguardo di Tolomeo.
Lui non aveva implorato. I suoi occhi - gli occhi dei gatti che hanno colto vette d'infinito; visto cieli di cristallo dove gli dei adagiano i propri pensieri; mescolato alle loro iridi il liquido elisir dell'immortalità - i suoi occhi erano rimasti taciti e fermi, verdi sfere divinatorie, aperte sul fragile tessuto dell'umanità.


Da "Il Crisocomio", Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2002.

Cenere

Geltrude d'Acquaviva era una di quelle bellezze che non si dimenticano. Altera e superba, comunicava al suo volto il risentimento dell'animo protervo e nessuna dolcezza ammorbidiva quelle linee classiche, nessun sorriso indugiava sulle labbra sempre leggermente indignate, nessun sospetto di pudore faceva inchinare lo sguardo chiarissimo delle pupille. Eppure chi la conosceva, per quel tanto che si può conoscere una donna che si neghi a qualsiasi sospetto di abbandono, era disposto a giurare che più volte un'ombra di malinconia aveva offuscato il limpido splendore di quegli occhi glauchi.
Di chiacchiere sul suo conto ne correvano molte. Ma, più che chiacchiere, parevano leggende. Si diceva infatti che lei, la bellissima, amasse d'un amore infelice un uomo che la sdegnava preferendole un'anonima fanciulla di natali dignitosi e niente di più, non particolarmente avvenente, solo dolce e remissiva: una certa Caterina.
Nel salotto di una dama assai spigliata, e capace di comporre versi, che offriva ai suoi ospiti evasioni di pastorali soavità su modello della regina Cristina, da poco approdata in Italia, Geltrude aveva spesso occasione d'incontrare Alfonso, quello per cui segretamente si struggeva, insieme a Caterina, la propria inconsapevole rivale. Raramente gli occhi della donna si soffermavano sui due innamorati e, se ciò accadeva, lo sguardo sempre si adornava di un leggero moto di derisione. Tuttavia Cosimo Gualfredi, pittore di rara maestria nel ritrarre le sembianze femminili, come molti altri invaghito di Geltrude, aveva notato che lei, credendosi non osservata, qualche volta si concedeva il soffio di una carezza lievissima nel balenio lieve delle pupille in rapida sosta sulla testa di Alfonso. Una sera, mentre i musici eseguivano il Lamento per la morte di Clorinda, certo attirata dai tragici assalti delle note di Monteverdi, Geltrude aveva proteso il capo oltre la colonna che la nascondeva quasi interamente. Cosimo la stava fissando con intensità dolorosa, tanto era magnifica e stupendamente composta quella figura e , a un tratto, nel volto di lei fiorito sotto la massa dei capelli acconciati alla foggia dell'Arcadia, colse l'adamantino splendore di una lacrima. Fu una rivelazione. Una donna di quella sorta non piange per isterica frenesia, ma per reale e tragico sentire: da quel momento il segreto di lei appartenne a Cosimo che, proprio per quella debolezza che gliela negava senza possibilità di speranza, l'amò di più, perdutamente, e a se stesso promise che l'avrebbe ritratta in tutta la sua prorompente fierezza.
Alle musiche seguì una cena raffinata e variopinta di colori: alle piume verdi dei fagiani, ai bruni arsicci degli arrosti facevano degno riscontro cromatico i calici tinti di vino scarlatto e vermiglio e su tutta la tavola adorna di pregiate sculture di zucchero in foggia di ninfe e satiri, dominava Geltrude, racchiusa nella teca di velluto dell'abito color morellino, la tinta preferita di un'altra appartenuta alla schiera delle belle: Lucrezia Borgia.
Di Lucrezia, che pure ricordava per i lunghi capelli biondi inanellati in riccioli fitti, ostili a ogni pettine, Geltrude non condivideva la grazia esile tramandataci dal Pinturicchio: rispetto all'antica, questa bellezza del Seicento che moriva aveva l'opulenza ingorda del suo secolo, la pienezza delle forme evocanti linee barocche, l'assorta pensosità e l'inquietudine comunicate dal fiato controriformistico. Più pregna di vita e consapevole, appariva donna, mentre l'altra era rimasta fanciulla, collocata nell'eclissi composta della Rinascenza.
Di tutto questo Cosimo si sentiva conscio e ammirato e pensava che, ritratta, quella donna avrebbe donato all'artefice una fama senza eguali.
L'avvicinò dopo cena, sulla vasta terrazza coperta che si apriva sul retro del salone da ballo, indovinando il languore di lei dalla posa assorta, dall'abbandono della mano soave sulla balaustra di pietra che delimitava lo spazio familiare ancora carico dei profumi della festa, degli aromi femminili disciolti nell'aria, delle spezie usate per arricchire le vivande: più oltre si schiudeva il dominio della notte disperso in miriadi di particelle d'ombra intese a comporre la totale oscurità e il silenzio del parco, carico di incantamenti.
"La vostra bellezza mi sconvolge, signora, al punto che non avrò pace se non mi concederete il consenso di ritrarvi" disse Cosimo.
Geltrude alzò la testa, gli occhi chiarissimi come emersi da un bagno di dolore. "Siete Cosimo Gualfredi?" chiese con voce ferma.
Segnò il suo indugio con una lunga pausa di silenzio, dopo l'assenso di lui. "Di voi si dice che siate un raro conoscitore dell'animo femminile e che questa capacità renda i vostri lavori più intensi e somiglianti ai modelli di quelli degli altri pittori. D'altra parte, siete un gentiluomo: non vedo quindi motivo alcuno per rifiutarvi il favore che mi domandate , ma sarò io a stabilire quando poserò per voi e non sarà molto presto. Vi manderò a chiamare allorché avrà trovato adeguata conclusione un problema che ora m'impegna: nel frattempo c'incontreremo sicuramente, come stasera, ma non ricordatemi mai, per nessun motivo, la mia promessa. Odio i postulanti."
Perplesso, con la sensazione di aver ricevuto uno schiaffo piuttosto che un privilegio, Cosimo chinò il capo in un sottinteso ringraziamento e si allontanò con un ineccepibile inchino.
Nei mesi successivi Geltrude fu, al solito, la più ammirata nei conviti, nei festini da ballo, alle riunioni gaie di quella società galante e ovunque colorò l'ora e la stagione degli incontri con i cromatismi inimitabili sprigionati dalla sua persona.
Il tempo scorreva amabilmente quando un fatto di sangue venne a turbare la scansione delle giornate, fino allora misurate sul corso degli svaghi: il corpo di Caterina, orrendamente mutilato del capo, fu rinvenuto ai piedi di un olmo poderoso, nel parco di quella stessa dama che si dilettava di poesia e d'arcadia. Era da poco trascorsa la mezzanotte e nella villa, dopo una sontuosissima cena, gli ospiti misuravano l'attesa dei convegni e dei piaceri notturni sugli accordi musicali di cui risultavano densi i saloni. Fu una coppia di giovani amanti a fare la macabra scoperta: nel crescendo delle note con cui i musici allietavano la brigata a un tratto irruppe un urlo straziante. In un corri corri di fruscianti broccati e morbidi ermesini, le signore, degli uomini assai più curiose, si precipitarono leste all'esterno, dove subito il cadavere si mostrò nella sua sguarnita foggia. Appesantiti dalle vivande e dai vini liquorosi, ebbri dalle promesse d'amore, più lenti arrivarono i gentiluomini a conforto delle poverine che svenivano. Ma Cosimo Gualfredi era giunto per primo: la testa che tutti cercavano, in un grottesco nascondino, lui l'aveva scorta immediatamente, sotto la statua di Venere, conficcata in una pozza di melma che le irruenti piogge settembrine avevano scavato nell'aiola coltivata intorno alla dea. Pareva sorridesse, la sventurata Caterina, con l'esile collo reciso inghirlandato dai mesti fiori infradiciati che il giardiniere aveva neghittosamente dimenticato di tagliare. Ma Geltrude, lei no, non sorrideva: solitaria in mezzo allo schiamazzìo delle dame che le rimaneva estraneo, inalberava il proprio pallore come un emblema di odio e, nell'attimo in cui Alfonso scoppiò in lacerato pianto, girò, offuscato da una patina di disgusto, il volto bellissimo.
Ci fu un'inchiesta che non venne a capo di nulla: non esisteva movente plausibile per l'omicidio, parendo incomprensibile che qualcuno potesse aver avuto interesse a sopprimere quella dolce, incolore fanciulla. Le autorità decisero infine che uno sconosciuto, introdottosi nella proprietà con l'intenzione di rubare e sorpreso nel parco da Caterina, per timore che lei urlasse richiamando l'attenzione degli altri, l'avesse uccisa. Ma tutti sapevano che l'ipotesi era impensabile: quale ladro si sarebbe accanito sulle spoglie della vittima, col rischio peraltro di essere sorpreso e finire in mano al boia?
Il delitto non era facile da dimenticare e sulle prime non venne dimenticato. Le riunioni ripresero, senza gaiezza, solo guidate dall'ansia di dimostrare che tutto era come prima: tuttavia ognuno covava in sé il timore attossicato dal sospetto: uno qualsiasi degli amici poteva essere l'assassino e occorreva non abbassare la guardia. Spensierate, le cene e le serate musicali, non furono più: l'amore si affacciava cauto tra le pieghe insidiose della diffidenza e il sorriso, frequente sulle labbra, non arrivava ad animare gli sguardi.
Intanto, trascorsi alcuni mesi, l'inverno si era annunciato con timide nevicate che avevano dato verginità nuova al grande parco in cui più nessuno, dalla notte dell'assassinio, aveva osato avventurarsi. Quel biancore incontaminato parve dissipare la memoria: le tracce della violenza, l'urlo del sangue e la ferocia della mano che aveva colpito vennero dimenticati, entrarono nella leggenda senza portarvi l'odore e il peso della materia lacerata. Le prime coppie, un po' esitanti all'inizio, ma poi sempre più apertamente frivole e gioiose, tornarono a percorrere i sentieri vigilati dagli scheletri degli alberi, preziosi nelle loro argentee ramificazioni; accanto alle orme degli uccelli e ai rapidi passi di volpi e donnole, si affiancarono le impronte di piedi finemente calzati; i bordi di pelliccia dei mantelli di velluto trattennero, tra i morbidi peli già appartenuti alla martora e allo zibellino, cristalli di gelido biancore: lacrime della terra rese solide dall'inclemenza della stagione.
Col freddo, gli animi si scaldarono, golosi di rinascenti passioni: l'umore e i giochi ripresero vivacità, l'amore corse di nuovo gioioso a far ansimare i seni fiorenti delle belle, le note di Monteverdi si diffusero ancora e ancora nei saloni dipinti di storie, di eroismi e di follie.
Cosimo Gualfredi attendeva in silenzio. Da tempo non dipingeva, volendo concentrare la propria energia nello studio del soggetto che maggiormente lo interessava e da cui, ne era sicuro, sarebbe scaturito il suo capolavoro: Geltrude. La donna pareva aver dimenticato la promessa fatta, ma lui era certo non solo che la ricordasse, ma che fosse ormai prossimo il momento nel quale gli avrebbe concesso di ritrarla. Più bella che mai, aveva trascorso le lente settimane successive al delitto in una sorta di luttuoso atteggiamento: costantemente vestita di nero col solo ornamento di lunghi fili di perle (si diceva si fosse ispirata per il suo abbigliamento all'abito nuziale di Maria Maddalena d'Austria che, all'inizio del secolo, aveva sposato Cosimo III dei Medici poco dopo la morte della madre), o di violetto adorno di grigio, alle riunioni degli amici, oltre allo sdegnoso incedere ch'era stile di vita e dava slancio al suo esistere, aveva ostentato un pallido mutismo che si sarebbe potuto scambiare per dolore. Ma Cosimo sapeva che in lei non poteva esistere dolore per la scomparsa della rivale e assisteva alla recita dell'afflizione con la curiosità della mossa successiva. Una sera prossima al Natale il velluto rubino di un vestito assai scollato e ricco di gemme segnò la fine delle simulate gramaglie: la donna appariva abbagliante e, quando entrò nella sala dove tutti avevano già preso posto per il banchetto, gli uomini alzarono i calici in un brindisi alla reincarnata Afrodite. Alfonso più degli altri era acceso e le sue lunghe occhiate si posavano sul seno alabastrino dove il morbido tessuto si lacerava nella fenditura dell'ampio scollo. Per la durata della cena e nelle ore della musica tra i due non corsero che sguardi: fieri e possessivi quelli di lei; devoti e imploranti quelli dell'uomo, visibilmente soggiogato da una passione che soltanto allora gli si era d'improvviso rivelata. Varie settimane durò il gioco degli sguardi, e sempre da lontano: Geltrude aveva cura di farsi attendere e, giunta, si poneva in mostra il più possibile remota da Alfonso che continuava a inviarle taciti e accorati messaggi, destinati, dopo la prima volta, e almeno in apparenza, a cadere nel vuoto. Trastullo antico e perverso, il medesimo condotto dal gatto col topo: Cosimo si chiedeva quanto sarebbe durato.
Durante il tempo del carnevale, a un ballo in maschera, una coppia attrasse l'attenzione di tutti. Eburnea sotto la diafana trama d'oro che solo in parte la celava, lei appariva Geltrude trasformata dalle seduzioni e i fasti delle fogge orientali, lui era Alfonso: un Alfonso raggiante di felicità conclusa. Del resto, i costumi, scelti per irrompere insieme nel vivo della festa, rivelavano tutto ciò che di quell'intesa era già stato consumato. Cosimo non si stupì, ma forse una parte incontrollata e vaga del suo animo di artista si dolse sui frantumi di un sogno: presto la donna gli avrebbe chiesto di ritrarla e solo della dolceamara attesa poteva godere. Ma quella sera le aspettative del pittore vennero superate: poco dopo la mezzanotte infatti, al colmo di un brindisi dedicato a Cupido, Geltrude annunciò il proprio imminente matrimonio con Alfonso e intanto Amore, malizioso fanciullo, sulla scia delle parole modulate dalle belle labbra, s'infiltrava fra le fruscianti gonne delle dame semiadagiate sui divani, dischiuse alle carezze degli amanti come fiori dal troppo calore destati e consunti.
Il giorno successivo una lettera di Geltrude d'Acquaviva invitava Cosimo Gualfredi a recarsi immediatamente al palazzo di lei per dare inizio al ritratto pattuito. La forma dell'invito offese l'artista che fu tentato di concedersi il gusto del rifiuto, ma poi l'interesse per il soggetto prevalse, più forte dell'orgoglio.
"Dite alla marchesa che inizierò a ritrarla nelle prime ore del pomeriggio" assicurò al segretario in attesa di una risposta. "Fra circa un'ora un mio servitore porterà colori e pennelli e tutti gli strumenti necessari al mio lavoro. Avvertite la vostra padrona che faccia allestire una stanza di vaste
dimensioni dove a nessuno sia concesso il disturbarci. Questo è tutto."
Il palazzo degli Acquaviva, fatto edificare oltre un secolo prima, si trovava a poche miglia dalla città. Bizzarra costruzione in cui gli inquieti esiti del tardo manierismo confluivano in un accordo sconnesso ma fascinoso, più che un palazzo era un castello. La disomogeneità del terreno ampiamente pianeggiante che a un tratto dirupava a strapiombo con un dislivello di molti e molti metri, spiegava il singolare e complesso aspetto della costruzione, In parte alto e verticale, con una parete smisurata che calava a novanta gradi giù fino alle pendici dello scoscendimento, l'edificio, afferrandosi agli appigli del suolo rimontante, si adagiava in un lungo corpo accovacciato su prati verdi, nitidi nell'alba dei gelidi intendimenti che talvolta la natura persegue. A chi la osservava da lontano, la vecchia dimora produceva l'effetto di un corpo calmo e massiccio affiancato da una specie di torre suicida che si gettava nel vuoto, ma a esaminarla meglio si rilevavano particolari interessanti. La parte più tranquilla dell'abitazione non era, come si sarebbe potuto credere, quella posata sulla morbida landa, bensì l'altra. Non s'inabissava infatti, la parete scoscesa, in un burrone carico di silenzio solo interrotto dall'acuto stridio dei rapaci, o dominio d'inquietudini selvagge, bensì, guardando verso la città, ruzzolava giù con il suo ingombro di pertugi, finestrine, panni tesi, anelando a congiungersi al fervore di vita che da quel lato s'indovinava. Nei piani bassi l'ala, il cui spazio via via si restringeva a causa della collina a fianco, era totalmente occupata dai servi che vi trovavano alloggio in un alveare fitto di anfratti, di stanzini, di bugigattoli ansiosi di luce, popolati di canti, tinti, sui brevi davanzali di pietra, della gaia policromia dei poveri che asciugano all'aria i loro cenci. Gli appartamenti padronali erano situati tutti sull'altro versante, affacciato sulla vasta estensione erbosa. Difficile immaginare un orizzonte più aperto di quello che si parava davanti affacciandosi alle ampie finestre del lato nobile; difficile anche desiderare spazi più effusi, baciati dal sole e dissetati dalla pioggia. Isola in apparenza felice, il luogo, proprio nel suo nucleo di maggior splendore, era dominato da un sinistro trasalimento di sciagura. Lì la vita pareva inespressa: non si udivano voci, né risa di fanciulle si spandevano liete nell'aria leggera; i colori austeri della facciata rimanevano soli a confondersi con l'azzurro del cielo. E quale sortilegio aveva privato gli animali della loro irruente presenza? I cavalli tacevano, rinchiusi nelle scuderie, cani e gatti erano assenti e, se esistevano uccelli, certamente ignoravano il canto. Se non si fosse stati sicuri del contrario, la casa si sarebbe detta disabitata, e da molto tempo.
Un profondo senso di malessere assalì Cosimo al suo arrivo in quel luogo. Era il primo pomeriggio di una giornata di marzo chiara e ventosa. Nelle vie della città s'indovinava la primavera e l'uomo aveva cavalcato volentieri fino all'abitazione di Geltrude, ma appena vi fu giunto provò intenso il desiderio di tornare indietro. Non era un pavido e non soffriva d'isteria, ma, come molti artisti, spesso, delle persone e delle situazioni, capiva più di ciò che altri capivano. Comunque era venuto per dipingere un ritratto e l'avrebbe dipinto. Bussò all'imponente portone e, appena introdotto in casa da un solerte servitore che gli assicurò che il suo cavallo sarebbe stato sollecitamente rifocillato, si dette dello sciocco. Forse non c'era nulla di strano nel silenzio, nella fissità della costruzione congelata in una dimensione diversa dalla vita e apparentemente avulsa da essa: lui covava sovente segrete e intense suggestioni di morte e ne contaminava le proprie giornate, gl'incontri, i sogni stessi. Seguì il domestico lungo un interminabile teoria di sale, l'ultima delle quali - la biblioteca - attraverso ampie portefinestre, immetteva direttamente in quella che Cosimo ritenne essere l'ala sinistra del parco. Uscirono all'aperto e il servitore gl'indicò un padiglione poco discosto dall'edificio principale: lì avrebbe trovato la marchesa. Una fitta vegetazione intricava la natura del luogo che in quel tratto, assai differente dal prato davanti alla casa, si mostrava generosa di verdeggianti esiti e di multiformi aspetti. Cosimo si diresse al padiglione e, con piglio deciso, aprì la porta. L'idea di bussare non gli sfiorò il pensiero.
L'interno era piuttosto spoglio, quasi disadorno. Geltrude, vestita di bianco, sedeva in una poltrona dall'alto schienale. Appariva bellissima, ma nei suoi occhi l'artista colse un sentimento che mai vi aveva scorto prima: il terrore. Geltrude guardava fisso un angolo lontano della stanza in cui lui, entrando, non era riuscito a distinguere nulla. Poi lo vide: un gatto, uno splendido animale grigio argento tigrato di nero dominava quella superba col suo magnetismo. Aveva occhi verdi e un'aria di controllata attesa.
"Perché provate tanta paura di questa bestia?" domandò Cosimo.
La donna trasalì. Non l'aveva udito entrare.
"Che idea! Io non ho paura di nessuno" rispose e, nel parlare, un leggero tremito della voce tradì la menzogna.
"È vostro il gatto?"
"Certo che è mio. Cioè intendo dire che adesso è mio. Apparteneva a Caterina, sapete, la ragazza uccisa. Pare che nessuno ne volesse aver cura e così Alfonso l'ha affidato a me. In realtà non amo i gatti. Credono di sapere troppe cose; sono creature subdole e presuntuose."
"Potrei dipingervi mentre lo tenete in braccio: il contrasto dei colori, delle linee sarebbe di grande effetto. Bellezza accostata a bellezza…È un animale con sfumature insolite. Come si chiama?"
"Cenere. Si chiama Cenere. No, l'idea non mi piace. Desidero un ritratto che mi dedichi tutta la vostra attenzione. Sarà il mio dono di nozze ad Alfonso."
Cosimo si diresse verso Cenere: desiderava osservarlo meglio. Si accovacciò accanto a lui e incominciò a parlargli con dolcezza, grattandolo prima sulla testa di velluto e poi sotto il mento. Il gatto lo guardò: due occhi di limpida giada gl'inviarono messaggi teneri, percorsi tuttavia da ammonizioni severe e disperate e l'uomo avvertì che una profonda corrente di complicità lo stava unendo a quell'animale insolito che, non con le fusa, ma con una più silenziosa e profonda offerta di sé aveva risposto alle sue carezze. Lo colse un presagio di smarrimento e rimase qualche attimo pensoso.
"Come volete" disse infine, indugiando ancora con la mano nel fitto pelo del nuovo amico. "Naturalmente farò come desiderate. Eppure, insieme a lui, perfino una bellezza come la vostra sarebbe apparsa più radiosa."
L'esecuzione del ritratto richiese tempo e pazienza: Geltrude non era tranquilla. Una pena l'agitava, nascosta sì, ma tale da riflettersi sul volto a scalfirne la perfezione di statua. Un giorno si mostrava felice, quasi spensierata e gli occhi erano laghi di azzurra trasparenza: il pittore ne fissava sulla tela le linee inalterate, lo sguardo purissimo, il sorriso dischiuso sull'incarnato di magnolia, ma la mattina successiva tutto il lavoro risultava da rifare: Geltrude era un'altra donna, una sconosciuta crudele, chiusa in un cerchio di sconfinate lontananze da cui nessuna voce poteva richiamarla. Cosimo creava e distruggeva, sicuro che la fatica non avrebbe mai avuto fine. Talvolta la sera, dopo tante ore trascorse al cavalletto cercando di fissare quei tratti che in lei erano sempre fuggitivi e provvisori, veniva preso da un totale scoramento e l'assaliva la tentazione di abbandonare quell'opera che, prima in tutta la sua esistenza di artista, gli pareva impossibile portare a termine. Ma repentino un bagliore nelle pupille femminee lo inchiodava a una ricerca più intensa, e mescolava terre e pigmenti, sfumava e contrastava, tentava le infinite vie dei più azzardati cromatismi per riprodurre almeno una parvenza della creatura che, indifferente a tanto scompiglio portato nell'animo di lui, gli sedeva davanti, specchio mutevole di un animo trascinato da mille intemperanze tacitate nell'involucro di un gelido riserbo.
Cenere assisteva a tutte le sedute. Stava nel suo angolo da cui non si muoveva quasi mai. Cosimo aveva scoperto che solo lui poteva toccarlo: gli altri, Geltrude compresa, non si azzardavano a farlo, ma se talvolta gli si accostavano il gatto subito si allontanava. A parte questa bizzarria, sembrava un animale assai tranquillo: osservava con attenzione le evoluzioni del quadro e i suoi immancabili regressi. Un'ironia impalpabile brillava nei verdi occhi spalancati nella contemplazione quasi mistica di una realtà che a lui doveva apparire risibile. Eppure Cosimo covava l'assurda convinzione che al gatto stesse in qualche modo a cuore l'esecuzione del dipinto: glielo leggeva nei fremiti delle vibrisse che facevano da contrappunto ai propri successi col pennello, nella tensione delle zampe che commentava immancabili scoramenti, nel drizzarsi delle orecchie alla fine di ogni seduta, quando controllava i risultati raggiunti. E, in maniera del tutto irrazionale ma non per questo meno autentica, l'uomo si era accorto che, da Cenere, si attendeva un giudizio e desiderava che fosse positivo.
Geltrude parlava pochissimo. Rare frasi, monconi di parole vaganti nell'aria come frange inconsistenti di ragnatele incrinavano il silenzio del locale dove la ricerca del pennello a tentare nuovi esiti era rumore, e rumore assordante. Dopo quelle lunghe giornate, Cosimo era inebriato di solitudine e di un totale senso di inconsistenza; solo una carezza a Cenere e la muta approvazione dei suoi occhi rotondi servivano a ristabilire il contatto con la realtà, a vanificare i dubbiosi incubi che lo incalzavano da vicino, a far scorrere di nuovo sangue e linfa nei suoi arti irrigiditi nella paralisi della fatica e dello sgomento.
Si arrivò a giugno. Il calore della primavera avanzata contagiava col presagio dell'estate perfino il vasto prato esangue che ormai Cosimo attraversava con indifferenza. Cenere perdeva il pelo: l'angolo dove abitualmente soggiornava appariva disseminato di mille serici frammenti della sua pelliccia. Il muso gli si era fatto più affilato e talvolta i verdi occhi di cristallo tradivano frementi crudeltà di dei inappagati.
Lentamente il ritratto progrediva: il volto era adesso fissato nella propria tersa luminosità, consegnato per sempre all'ambiguo gioco dei sentimenti contrastanti in lotta sotto lo smalto della pelle levigatissima.
Nessuna confidenza si era stabilita fra la modella e il suo artista : la donna, reclusa in un proprio mondo inaccessibile, permeato di asprezze e turbamenti, aveva alzato una barriera tanto profonda fra se stessa e Cosimo che lui, gradatamente, aveva perso l'interesse amoroso dell'inizio, conservando solo la curiosità per il soggetto difficile e sfuggente. Curiosità e interesse che nulla possedevano di affettuoso. Un tenero affetto, viceversa, aveva finito per legarlo a cenere da cui si sentiva contraccambiato e, poiché la padrona non si curava per niente del gatto, aveva progettato di chiederlo come compenso del suo lavoro.
Le nozze erano fissate per il 21 giugno. La sera del 20 Cosimo dette l'ultima pennellata al dipinto: l'indomani, a cerimonia avvenuta, l'avrebbe mostrato agl'invitati, allo sposo, a Geltrude stessa che, di buon grado, si era adeguata alla richiesta di non vederlo finché non fosse stato finito. Un'occhiata finale ai dettagli gli confermò l'eccellenza del lavoro: perfetta la somiglianza di quel volto che, per sua natura, nemmeno in se stesso poteva trovare uno specchio fedele, acuta la penetrazione di quel carattere saturnino, realistici i colori in tutte le loro sfumature. Sì: poteva dirsi soddisfatto, a patto, naturalmente, che lo fosse anche Cenere. Sollecitato a esprimere un giudizio, il gatto descrisse un ampio cerchio attorno al cavalletto, levò in alto la bella testa come per respirare in regioni più elevate, allargò le rosee narici e, per la prima volta, dapprima deboli e poi ronfanti e beate, fece le fusa. Strane fusa, accompagnate da un nodo di non sciolta crudeltà nello sguardo lanciato a Geltrude che, col peso di mille noie, si stava alzando dalla poltrona in cui si era seduta per tanti, lunghi giorni consecutivi.
"Il quadro è terminato, signora. E vi rende giustizia: forse vi ha derubata di un po' della vostra bellezza per fissarla sulla tela, ma non me ne vorrete: ne possedete in abbondanza. "
"Siete molto galante. Sono sicura che il dipinto è ben eseguito e domani ne avrò la conferma. Amerei vederlo adesso, ma vi ho dato la mia parola e non lo guarderò se non domani, insieme agli altri. Consentitemi per il momento di ritirarmi: mi attendono una notte pensosa e una giornata lunghissima."
Cosimo s'inchinò e, presa una mano di lei per portarla alle labbra, rabbrividì al suo gelo, subito notando un accenno di panico negli occhi pervasi da un chiarore dilagante che, da azzurri, li faceva bianchi, come d'opale. Forse, con un gioco di luci e d'ombre, il bagliore delle candele aveva simulato, nel volto appassito di lieve fatica, una debolezza da cui Geltrude risultava immune. Forse.
Con un telo rosso coprì il ritratto ormai asciutto, non avendo ricevuto, quel giorno, che un'ultima pennellata simbolica. Una carezza a Cenere, accompagnata dalla tacita promessa di un futuro insieme, suggellò l'ultimo atto della scarna cerimonia. Fuori, nella notte, la luna pesava sugli uomini, appesa a un filo di remota consistenza.
La mattina successiva un sole lucente risvegliò nei capelli di Geltrude l'oro occorso a comporre la trama di delicate ondulazioni: mai si era vista sposa più inquietante nella propria avvenenza.
Vestita di pallido viola, avanzava sola nella severa navata della cappella di famiglia dove gl'invitati, divisi in due ali policrome e stupefatte, impallidirono al suo ingresso, come per un sentore malsano, subito attribuito alla scelta del colore livido, inconsueto per la festa e le occasioni gioiose. Non indossava monili, eccetto un'ametista, pietra delle regine, che spiccava alla mano destra, sommando altro viola in insistente, eccessivo accoppiamento.
In attesa davanti all'altare, lo sposo appariva soggiogato: piacevole nell'aspetto e nella foggia del giustacuore di broccato avorio intessuto in una gamma di toni via via più scuri, fino al bronzo , e con le gambe ben proporzionate chiuse nella guaina delle brache chiare, pur nella sua eleganza sottolineata da un'antica spilla di topazi e zaffiri, raro gioiello di famiglia poggiato sulla nitida striscia di pizzo che gli cingeva il collo, Alfonso spariva al confronto della donna che presto sarebbe divenuta sua moglie.
Per desiderio di Geltrude la cerimonia fu breve, accorciata da un cenno imperioso al prete che aveva visto nascere quella donna perdutamente lontana dai sorrisi dell'infanzia ed era stato confessore della madre: non osava, il pover'uomo, opporsi ai capricci della marchesa per timore che lei prendesse in disdegno la Chiesa e il Signore stesso.
Al termine della cerimonia, infranta la barriera di gelido umidore che sovente impregna le case di dio, il calore dell'estate accolse in un caldo abbraccio e invitati e sposi. Per condurre Geltrude al centro della proprietà, dove il prato sconfinato si elaborava in parco, proprio nel punto in cui, sotto grandi tendoni, era stato allestito il banchetto di nozze, si trovava in attesa una cavallina bianca adorna di fiorite ghirlande, lipizzana di razza fatta venire appositamente dagli allevamenti prossimi a Trieste. Dietro la marchesa che procedeva sulla sua cavalcatura condotta per la briglia da un estatico Alfonso, si snodava un lungo corteo. Già assaporava ognuno la dolcezza appagante delle glasse, degne coperture di arrosti ed esotiche vivande, il nettare dei vini, l'armonia di impasti e farciture. E, mentre il caramello evocato in colature ambrate, insieme al palato faceva sciogliere l'animo dei più cauti, molti avevano già scordato l'ansia che in chiesa li aveva condotti sul filo di un inspiegabile timore.
Brindisi e ovazioni coronarono di ambrosia e poesia spicciola una festa ch'ebbe lunghissima durata. Gl'invitati e lo sposo parevano felici, ma Cosimo avvertiva la stanchezza lacerargli le ossa e la nausea afferrargli lo stomaco. Quasi certo che Geltrude provasse il medesimo disagio, l'inquisiva con lo sguardo, a ricordarle ch'era giunto il momento di mostrare a se stessa e agli altri il ritratto che lui aveva faticosamente, puntigliosamente dipinto.
L'invito, con l'esortazione che conteneva, fu percepito dalla donna. Stanca, si sentiva molto stanca: suo unico desiderio era mettere fine a quella giornata di cui detestava la festosità vociante, quasi plebea. I volti accaldati, i capelli lucidi di sole e di sudore le procuravano un intenso disgusto. La gioia per lei si riduceva a una ragnatela d'oro sospesa nell'aereo vuoto del buio più silenzioso: piccola trama di luce che un soffio basta a infrangere. Odiava il chiasso e l'allegria: portava in sé il peso e lo splendore di una meravigliosa solitudine. Il ritratto in fondo non la incuriosiva: conscia della propria bellezza, come Narciso trovava in essa il massimo appagamento, non all'esterno, però, nell'illusorio gioco di ombre proiettate nell'infinita spera, bensì confrontandosi ogni istante coi tanti frammenti che costituivano l'immaginario della sua mente: poco la interessava il resto delle effigi. Occorreva comunque sigillare la giornata con l'atto conclusivo e tributare qualche onore a Cosimo. Si volse quindi verso Alfonso che sedeva al suo fianco e gli sussurrò poche parole all'orecchio; poi si alzò in piedi.
"Amici" disse " desidero adesso farvi vedere qualcosa che ho deciso di regalare al mio sposo come dono simbolico per le nozze." E ancora si girò e sorrise al compagno con i tersi occhi azzurri, con la bocca dischiusa, con il volto intero in cui, per la prima volta manifesta, balenò la scintilla dell'amore. In quell'attimo Cosimo pensò che mai l'aveva vista splendere così e si convinse che il dipinto era sbagliato, tutto sbagliato. Dov'era la donna imperiosa e lucida che aveva forzato la sua mano sulla tela? Dove il volto inquieto e perduto? Dove il silenzio che l'annegava? Il viso di Geltrude come ora appariva era una sinfonia di felicità. Eppure, l'avrebbe giurato, solo pochi minuti avanti gli aveva fatto l'impressione di essere esausta dalla noia e indifferente anche ad Alfonso. Imprigionare in un'unica forma un simile soggetto significava ridurre la poliedricità all'uniformità e
alla monotonia: misera soluzione dell'arte!
Nel frattempo, sollecitati dalla loro ospite, gl'invitati si erano alzati; qualcuno, informatosi sulla natura del dono, non nascondeva il desiderio di vedere il dipinto.
"Pensate che neanch'io l'ho visto" spiegò lei. "Cosimo Gualfredi ha preferito così e io ho rispettato la sua bizzarria d'artista."
Si girarono tutti a osservare il pittore e lui si sentì quasi ridicolo, certo capriccioso per aver preteso tanto. Non spiegò nulla; si limitò a sorridere pensando che l'attesa imposta a Geltrude si poteva in parte spiegare come una vendetta contro quella sua indifferenza, pensata e trascinata fra gli uomini da un universo sconosciuto.
Quasi tutti si erano ormai incamminati verso il padiglione, del resto poco lontano. Gli sposi procedevano avanti, lei con un calice di vino in mano, colmo per l'offerta a invisibili visitatori.
Notò Cosimo, nel momento in cui giunsero alla porta, che le dame, convenute in numero esiguo, si scostarono quasi a evitare una corrente di gelo che le investisse; qualche pizzo, ornamento malizioso sui seni, o ai polsi, appena all'inizio di mani educate alle carezze, tremò, agitato da un vento inesistente nella placida giornata estiva.
Geltrude spinse il battente e penetrò nella stanza. Gli altri la seguirono: il brusio dell'eccitazione si era spento in una sospensione timorosa. La luce velata dalle tende di lino bianco concesse benefico refrigerio agli sguardi; anche Cenere che si alzò sbadigliando apparve gradevole, tutto d'argento pacato dopo la luminosità accecante di fuori.
"Suvvia, Geltrude, che cosa aspetti? Non farci più tribolare" la esortò quell'amica che componeva versi. "Mostraci il ritratto: così potremo constatare se il nostro Cosimo è davvero all'altezza della sua fama. Il dipinto che fece alla Dianora era assai bello e le procurò un marito, ma con te occorre una maestria senza pari…"
"È vero, signora, s'intromise il Gualfredi. "E io, che pure fino a oggi mi sono ritenuto abile nella mia arte, questa maestria temo di non possederla. Del volto della marchesa - su cui il mio pennello è tornato più volte per catturare espressioni mai in accordo fra loro - ho colto forse un aspetto, un sublime momento, ma non la variegata , scintillante poliedricità che lo anima."
"Non siate troppo modesto, Cosimo" replicò la poetessa. "Siete troppo giovane per appagarvi di voi stesso. Giudicheremo noi del vostro lavoro."
Un folto gruppo, compatto e pressante, s'era stretto intorno alla sposa e, ai piedi di lei, Cenere, avvicinatosi in silenzio, palesava, col pelo insolitamente irto, l'impazienza dell'attesa.
"Anche tu vuoi vedere il quadro, mio bel micio?" domandò Alfonso, prendendo il gatto in braccio e sollevandolo all'altezza del dipinto. "Adesso ci siamo proprio tutti. Geltrude, ti prego, solleva il telo che l'offusca e rivelaci una ancora delle tue bellezze."
Lei, la mano tremante, alzò un lembo del tessuto rosso , sudario scarlatto che celava il simulacro: l'angolo in basso a sinistra le mostrò il colore familiare dell'abito che aveva indossato durante le prove. Parve rassicurata: con gesto rapido strappò via il tessuto lacerandolo sulla cornice che lo trattenne un istante. Una frazione di silenzio seguì la visione repentina, poi un urlo lacerò l'aria e si cristallizzò in spade d'impalpabile ferocia: non Geltrude dominava l'inerte materia della tela, ma Caterina, fanciulla innocente con gli occhi morti e la testa mozzata sul sigillo di un coagulo di sangue, così come l'aveva rinvenuta quel medesimo gruppo di amici nella notte di orrore mai dimenticata.
Alfonso parve barcollare: Cenere balzò dal suo abbraccio inerte precipitandosi su Geltrude e, con le lame delle unghie cresciute in pause di smisurato ozio, le profanò il viso superbo. Quindi, velocissimo, corse via dalla porta rimasta aperta, ma non per fuggire: una sfida brillava nei suoi occhi. Lei comprese e accettò l'invito a una corsa sfrenata: il gatto avanti e la donna dietro, volavano per il prato caracollando in direzioni sconnesse, secondo la guida impressa dall'animale. A un tratto però Cenere sembrò diretto da un'idea precisa: ripercorse tutto il lato di fronte alla facciata del palazzo e infine curvò bruscamente sulla sinistra. Geltrude gli era dietro, scarmigliata, con i capelli d'oro che il sudore aveva intrecciato in sottili cordicelle di bronzo, ferita, quasi cieca dal sangue che le colava sulla faccia. Il baratro, volto agli ameni richiami della città, si spalancò davanti a lei che non lo vide: la sua caduta fu un tragico degradarsi dinanzi ai pertugi e ai finestrini dei servi, tutti affacciati per scoprire la causa del rumore. Nel precipitare, la chioma bionda si spalancò come una medusa e, pietosa, nascose i lineamenti disfatti, l'orgoglio sconfitto, la paura della morte, breve, in quell'atto, come un battito di ciglia.
Cenere s'era fatto da parte e ronfava tranquillo, leccandosi i polpastrelli feriti nella corsa. Voci e suoni vicini gl'indicarono che gli altri stavano arrivando. Doveva nascondersi finché Cosimo non fosse rimasto solo. Perché lui sapeva che Cosimo, quando tutti avessero pianto e pianto e poi se ne fossero andati sempre piangendo, sarebbe rimasto per cercarlo. Lui sapeva. E anche Cosimo…

Da "Il Crisocomio", Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2002.