Geltrude d'Acquaviva era una di quelle bellezze che
non si dimenticano. Altera e superba, comunicava al suo volto il risentimento
dell'animo protervo e nessuna dolcezza ammorbidiva quelle linee classiche,
nessun sorriso indugiava sulle labbra sempre leggermente indignate,
nessun sospetto di pudore faceva inchinare lo sguardo chiarissimo
delle pupille. Eppure chi la conosceva, per quel tanto che si può
conoscere una donna che si neghi a qualsiasi sospetto di abbandono,
era disposto a giurare che più volte un'ombra di malinconia
aveva offuscato il limpido splendore di quegli occhi glauchi.
Di chiacchiere sul suo conto ne correvano molte. Ma, più che
chiacchiere, parevano leggende. Si diceva infatti che lei, la bellissima,
amasse d'un amore infelice un uomo che la sdegnava preferendole un'anonima
fanciulla di natali dignitosi e niente di più, non particolarmente
avvenente, solo dolce e remissiva: una certa Caterina.
Nel salotto di una dama assai spigliata, e capace di comporre versi,
che offriva ai suoi ospiti evasioni di pastorali soavità su
modello della regina Cristina, da poco approdata in Italia, Geltrude
aveva spesso occasione d'incontrare Alfonso, quello per cui segretamente
si struggeva, insieme a Caterina, la propria inconsapevole rivale.
Raramente gli occhi della donna si soffermavano sui due innamorati
e, se ciò accadeva, lo sguardo sempre si adornava di un leggero
moto di derisione. Tuttavia Cosimo Gualfredi, pittore di rara maestria
nel ritrarre le sembianze femminili, come molti altri invaghito di
Geltrude, aveva notato che lei, credendosi non osservata, qualche
volta si concedeva il soffio di una carezza lievissima nel balenio
lieve delle pupille in rapida sosta sulla testa di Alfonso. Una sera,
mentre i musici eseguivano il Lamento per la morte di Clorinda, certo
attirata dai tragici assalti delle note di Monteverdi, Geltrude aveva
proteso il capo oltre la colonna che la nascondeva quasi interamente.
Cosimo la stava fissando con intensità dolorosa, tanto era
magnifica e stupendamente composta quella figura e , a un tratto,
nel volto di lei fiorito sotto la massa dei capelli acconciati alla
foggia dell'Arcadia, colse l'adamantino splendore di una lacrima.
Fu una rivelazione. Una donna di quella sorta non piange per isterica
frenesia, ma per reale e tragico sentire: da quel momento il segreto
di lei appartenne a Cosimo che, proprio per quella debolezza che gliela
negava senza possibilità di speranza, l'amò di più,
perdutamente, e a se stesso promise che l'avrebbe ritratta in tutta
la sua prorompente fierezza.
Alle musiche seguì una cena raffinata e variopinta di colori:
alle piume verdi dei fagiani, ai bruni arsicci degli arrosti facevano
degno riscontro cromatico i calici tinti di vino scarlatto e vermiglio
e su tutta la tavola adorna di pregiate sculture di zucchero in foggia
di ninfe e satiri, dominava Geltrude, racchiusa nella teca di velluto
dell'abito color morellino, la tinta preferita di un'altra appartenuta
alla schiera delle belle: Lucrezia Borgia.
Di Lucrezia, che pure ricordava per i lunghi capelli biondi inanellati
in riccioli fitti, ostili a ogni pettine, Geltrude non condivideva
la grazia esile tramandataci dal Pinturicchio: rispetto all'antica,
questa bellezza del Seicento che moriva aveva l'opulenza ingorda del
suo secolo, la pienezza delle forme evocanti linee barocche, l'assorta
pensosità e l'inquietudine comunicate dal fiato controriformistico.
Più pregna di vita e consapevole, appariva donna, mentre l'altra
era rimasta fanciulla, collocata nell'eclissi composta della Rinascenza.
Di tutto questo Cosimo si sentiva conscio e ammirato e pensava che,
ritratta, quella donna avrebbe donato all'artefice una fama senza
eguali.
L'avvicinò dopo cena, sulla vasta terrazza coperta che si apriva
sul retro del salone da ballo, indovinando il languore di lei dalla
posa assorta, dall'abbandono della mano soave sulla balaustra di pietra
che delimitava lo spazio familiare ancora carico dei profumi della
festa, degli aromi femminili disciolti nell'aria, delle spezie usate
per arricchire le vivande: più oltre si schiudeva il dominio
della notte disperso in miriadi di particelle d'ombra intese a comporre
la totale oscurità e il silenzio del parco, carico di incantamenti.
"La vostra bellezza mi sconvolge, signora, al punto che non avrò
pace se non mi concederete il consenso di ritrarvi" disse Cosimo.
Geltrude alzò la testa, gli occhi chiarissimi come emersi da
un bagno di dolore. "Siete Cosimo Gualfredi?" chiese con
voce ferma.
Segnò il suo indugio con una lunga pausa di silenzio, dopo
l'assenso di lui. "Di voi si dice che siate un raro conoscitore
dell'animo femminile e che questa capacità renda i vostri lavori
più intensi e somiglianti ai modelli di quelli degli altri
pittori. D'altra parte, siete un gentiluomo: non vedo quindi motivo
alcuno per rifiutarvi il favore che mi domandate , ma sarò
io a stabilire quando poserò per voi e non sarà molto
presto. Vi manderò a chiamare allorché avrà trovato
adeguata conclusione un problema che ora m'impegna: nel frattempo
c'incontreremo sicuramente, come stasera, ma non ricordatemi mai,
per nessun motivo, la mia promessa. Odio i postulanti."
Perplesso, con la sensazione di aver ricevuto uno schiaffo piuttosto
che un privilegio, Cosimo chinò il capo in un sottinteso ringraziamento
e si allontanò con un ineccepibile inchino.
Nei mesi successivi Geltrude fu, al solito, la più ammirata
nei conviti, nei festini da ballo, alle riunioni gaie di quella società
galante e ovunque colorò l'ora e la stagione degli incontri
con i cromatismi inimitabili sprigionati dalla sua persona.
Il tempo scorreva amabilmente quando un fatto di sangue venne a turbare
la scansione delle giornate, fino allora misurate sul corso degli
svaghi: il corpo di Caterina, orrendamente mutilato del capo, fu rinvenuto
ai piedi di un olmo poderoso, nel parco di quella stessa dama che
si dilettava di poesia e d'arcadia. Era da poco trascorsa la mezzanotte
e nella villa, dopo una sontuosissima cena, gli ospiti misuravano
l'attesa dei convegni e dei piaceri notturni sugli accordi musicali
di cui risultavano densi i saloni. Fu una coppia di giovani amanti
a fare la macabra scoperta: nel crescendo delle note con cui i musici
allietavano la brigata a un tratto irruppe un urlo straziante. In
un corri corri di fruscianti broccati e morbidi ermesini, le signore,
degli uomini assai più curiose, si precipitarono leste all'esterno,
dove subito il cadavere si mostrò nella sua sguarnita foggia.
Appesantiti dalle vivande e dai vini liquorosi, ebbri dalle promesse
d'amore, più lenti arrivarono i gentiluomini a conforto delle
poverine che svenivano. Ma Cosimo Gualfredi era giunto per primo:
la testa che tutti cercavano, in un grottesco nascondino, lui l'aveva
scorta immediatamente, sotto la statua di Venere, conficcata in una
pozza di melma che le irruenti piogge settembrine avevano scavato
nell'aiola coltivata intorno alla dea. Pareva sorridesse, la sventurata
Caterina, con l'esile collo reciso inghirlandato dai mesti fiori infradiciati
che il giardiniere aveva neghittosamente dimenticato di tagliare.
Ma Geltrude, lei no, non sorrideva: solitaria in mezzo allo schiamazzìo
delle dame che le rimaneva estraneo, inalberava il proprio pallore
come un emblema di odio e, nell'attimo in cui Alfonso scoppiò
in lacerato pianto, girò, offuscato da una patina di disgusto,
il volto bellissimo.
Ci fu un'inchiesta che non venne a capo di nulla: non esisteva movente
plausibile per l'omicidio, parendo incomprensibile che qualcuno potesse
aver avuto interesse a sopprimere quella dolce, incolore fanciulla.
Le autorità decisero infine che uno sconosciuto, introdottosi
nella proprietà con l'intenzione di rubare e sorpreso nel parco
da Caterina, per timore che lei urlasse richiamando l'attenzione degli
altri, l'avesse uccisa. Ma tutti sapevano che l'ipotesi era impensabile:
quale ladro si sarebbe accanito sulle spoglie della vittima, col rischio
peraltro di essere sorpreso e finire in mano al boia?
Il delitto non era facile da dimenticare e sulle prime non venne dimenticato.
Le riunioni ripresero, senza gaiezza, solo guidate dall'ansia di dimostrare
che tutto era come prima: tuttavia ognuno covava in sé il timore
attossicato dal sospetto: uno qualsiasi degli amici poteva essere
l'assassino e occorreva non abbassare la guardia. Spensierate, le
cene e le serate musicali, non furono più: l'amore si affacciava
cauto tra le pieghe insidiose della diffidenza e il sorriso, frequente
sulle labbra, non arrivava ad animare gli sguardi.
Intanto, trascorsi alcuni mesi, l'inverno si era annunciato con timide
nevicate che avevano dato verginità nuova al grande parco in
cui più nessuno, dalla notte dell'assassinio, aveva osato avventurarsi.
Quel biancore incontaminato parve dissipare la memoria: le tracce
della violenza, l'urlo del sangue e la ferocia della mano che aveva
colpito vennero dimenticati, entrarono nella leggenda senza portarvi
l'odore e il peso della materia lacerata. Le prime coppie, un po'
esitanti all'inizio, ma poi sempre più apertamente frivole
e gioiose, tornarono a percorrere i sentieri vigilati dagli scheletri
degli alberi, preziosi nelle loro argentee ramificazioni; accanto
alle orme degli uccelli e ai rapidi passi di volpi e donnole, si affiancarono
le impronte di piedi finemente calzati; i bordi di pelliccia dei mantelli
di velluto trattennero, tra i morbidi peli già appartenuti
alla martora e allo zibellino, cristalli di gelido biancore: lacrime
della terra rese solide dall'inclemenza della stagione.
Col freddo, gli animi si scaldarono, golosi di rinascenti passioni:
l'umore e i giochi ripresero vivacità, l'amore corse di nuovo
gioioso a far ansimare i seni fiorenti delle belle, le note di Monteverdi
si diffusero ancora e ancora nei saloni dipinti di storie, di eroismi
e di follie.
Cosimo Gualfredi attendeva in silenzio. Da tempo non dipingeva, volendo
concentrare la propria energia nello studio del soggetto che maggiormente
lo interessava e da cui, ne era sicuro, sarebbe scaturito il suo capolavoro:
Geltrude. La donna pareva aver dimenticato la promessa fatta, ma lui
era certo non solo che la ricordasse, ma che fosse ormai prossimo
il momento nel quale gli avrebbe concesso di ritrarla. Più
bella che mai, aveva trascorso le lente settimane successive al delitto
in una sorta di luttuoso atteggiamento: costantemente vestita di nero
col solo ornamento di lunghi fili di perle (si diceva si fosse ispirata
per il suo abbigliamento all'abito nuziale di Maria Maddalena d'Austria
che, all'inizio del secolo, aveva sposato Cosimo III dei Medici poco
dopo la morte della madre), o di violetto adorno di grigio, alle riunioni
degli amici, oltre allo sdegnoso incedere ch'era stile di vita e dava
slancio al suo esistere, aveva ostentato un pallido mutismo che si
sarebbe potuto scambiare per dolore. Ma Cosimo sapeva che in lei non
poteva esistere dolore per la scomparsa della rivale e assisteva alla
recita dell'afflizione con la curiosità della mossa successiva.
Una sera prossima al Natale il velluto rubino di un vestito assai
scollato e ricco di gemme segnò la fine delle simulate gramaglie:
la donna appariva abbagliante e, quando entrò nella sala dove
tutti avevano già preso posto per il banchetto, gli uomini
alzarono i calici in un brindisi alla reincarnata Afrodite. Alfonso
più degli altri era acceso e le sue lunghe occhiate si posavano
sul seno alabastrino dove il morbido tessuto si lacerava nella fenditura
dell'ampio scollo. Per la durata della cena e nelle ore della musica
tra i due non corsero che sguardi: fieri e possessivi quelli di lei;
devoti e imploranti quelli dell'uomo, visibilmente soggiogato da una
passione che soltanto allora gli si era d'improvviso rivelata. Varie
settimane durò il gioco degli sguardi, e sempre da lontano:
Geltrude aveva cura di farsi attendere e, giunta, si poneva in mostra
il più possibile remota da Alfonso che continuava a inviarle
taciti e accorati messaggi, destinati, dopo la prima volta, e almeno
in apparenza, a cadere nel vuoto. Trastullo antico e perverso, il
medesimo condotto dal gatto col topo: Cosimo si chiedeva quanto sarebbe
durato.
Durante il tempo del carnevale, a un ballo in maschera, una coppia
attrasse l'attenzione di tutti. Eburnea sotto la diafana trama d'oro
che solo in parte la celava, lei appariva Geltrude trasformata dalle
seduzioni e i fasti delle fogge orientali, lui era Alfonso: un Alfonso
raggiante di felicità conclusa. Del resto, i costumi, scelti
per irrompere insieme nel vivo della festa, rivelavano tutto ciò
che di quell'intesa era già stato consumato. Cosimo non si
stupì, ma forse una parte incontrollata e vaga del suo animo
di artista si dolse sui frantumi di un sogno: presto la donna gli
avrebbe chiesto di ritrarla e solo della dolceamara attesa poteva
godere. Ma quella sera le aspettative del pittore vennero superate:
poco dopo la mezzanotte infatti, al colmo di un brindisi dedicato
a Cupido, Geltrude annunciò il proprio imminente matrimonio
con Alfonso e intanto Amore, malizioso fanciullo, sulla scia delle
parole modulate dalle belle labbra, s'infiltrava fra le fruscianti
gonne delle dame semiadagiate sui divani, dischiuse alle carezze degli
amanti come fiori dal troppo calore destati e consunti.
Il giorno successivo una lettera di Geltrude d'Acquaviva invitava
Cosimo Gualfredi a recarsi immediatamente al palazzo di lei per dare
inizio al ritratto pattuito. La forma dell'invito offese l'artista
che fu tentato di concedersi il gusto del rifiuto, ma poi l'interesse
per il soggetto prevalse, più forte dell'orgoglio.
"Dite alla marchesa che inizierò a ritrarla nelle prime
ore del pomeriggio" assicurò al segretario in attesa di
una risposta. "Fra circa un'ora un mio servitore porterà
colori e pennelli e tutti gli strumenti necessari al mio lavoro. Avvertite
la vostra padrona che faccia allestire una stanza di vaste
dimensioni dove a nessuno sia concesso il disturbarci. Questo è
tutto."
Il palazzo degli Acquaviva, fatto edificare oltre un secolo prima,
si trovava a poche miglia dalla città. Bizzarra costruzione
in cui gli inquieti esiti del tardo manierismo confluivano in un accordo
sconnesso ma fascinoso, più che un palazzo era un castello.
La disomogeneità del terreno ampiamente pianeggiante che a
un tratto dirupava a strapiombo con un dislivello di molti e molti
metri, spiegava il singolare e complesso aspetto della costruzione,
In parte alto e verticale, con una parete smisurata che calava a novanta
gradi giù fino alle pendici dello scoscendimento, l'edificio,
afferrandosi agli appigli del suolo rimontante, si adagiava in un
lungo corpo accovacciato su prati verdi, nitidi nell'alba dei gelidi
intendimenti che talvolta la natura persegue. A chi la osservava da
lontano, la vecchia dimora produceva l'effetto di un corpo calmo e
massiccio affiancato da una specie di torre suicida che si gettava
nel vuoto, ma a esaminarla meglio si rilevavano particolari interessanti.
La parte più tranquilla dell'abitazione non era, come si sarebbe
potuto credere, quella posata sulla morbida landa, bensì l'altra.
Non s'inabissava infatti, la parete scoscesa, in un burrone carico
di silenzio solo interrotto dall'acuto stridio dei rapaci, o dominio
d'inquietudini selvagge, bensì, guardando verso la città,
ruzzolava giù con il suo ingombro di pertugi, finestrine, panni
tesi, anelando a congiungersi al fervore di vita che da quel lato
s'indovinava. Nei piani bassi l'ala, il cui spazio via via si restringeva
a causa della collina a fianco, era totalmente occupata dai servi
che vi trovavano alloggio in un alveare fitto di anfratti, di stanzini,
di bugigattoli ansiosi di luce, popolati di canti, tinti, sui brevi
davanzali di pietra, della gaia policromia dei poveri che asciugano
all'aria i loro cenci. Gli appartamenti padronali erano situati tutti
sull'altro versante, affacciato sulla vasta estensione erbosa. Difficile
immaginare un orizzonte più aperto di quello che si parava
davanti affacciandosi alle ampie finestre del lato nobile; difficile
anche desiderare spazi più effusi, baciati dal sole e dissetati
dalla pioggia. Isola in apparenza felice, il luogo, proprio nel suo
nucleo di maggior splendore, era dominato da un sinistro trasalimento
di sciagura. Lì la vita pareva inespressa: non si udivano voci,
né risa di fanciulle si spandevano liete nell'aria leggera;
i colori austeri della facciata rimanevano soli a confondersi con
l'azzurro del cielo. E quale sortilegio aveva privato gli animali
della loro irruente presenza? I cavalli tacevano, rinchiusi nelle
scuderie, cani e gatti erano assenti e, se esistevano uccelli, certamente
ignoravano il canto. Se non si fosse stati sicuri del contrario, la
casa si sarebbe detta disabitata, e da molto tempo.
Un profondo senso di malessere assalì Cosimo al suo arrivo
in quel luogo. Era il primo pomeriggio di una giornata di marzo chiara
e ventosa. Nelle vie della città s'indovinava la primavera
e l'uomo aveva cavalcato volentieri fino all'abitazione di Geltrude,
ma appena vi fu giunto provò intenso il desiderio di tornare
indietro. Non era un pavido e non soffriva d'isteria, ma, come molti
artisti, spesso, delle persone e delle situazioni, capiva più
di ciò che altri capivano. Comunque era venuto per dipingere
un ritratto e l'avrebbe dipinto. Bussò all'imponente portone
e, appena introdotto in casa da un solerte servitore che gli assicurò
che il suo cavallo sarebbe stato sollecitamente rifocillato, si dette
dello sciocco. Forse non c'era nulla di strano nel silenzio, nella
fissità della costruzione congelata in una dimensione diversa
dalla vita e apparentemente avulsa da essa: lui covava sovente segrete
e intense suggestioni di morte e ne contaminava le proprie giornate,
gl'incontri, i sogni stessi. Seguì il domestico lungo un interminabile
teoria di sale, l'ultima delle quali - la biblioteca - attraverso
ampie portefinestre, immetteva direttamente in quella che Cosimo ritenne
essere l'ala sinistra del parco. Uscirono all'aperto e il servitore
gl'indicò un padiglione poco discosto dall'edificio principale:
lì avrebbe trovato la marchesa. Una fitta vegetazione intricava
la natura del luogo che in quel tratto, assai differente dal prato
davanti alla casa, si mostrava generosa di verdeggianti esiti e di
multiformi aspetti. Cosimo si diresse al padiglione e, con piglio
deciso, aprì la porta. L'idea di bussare non gli sfiorò
il pensiero.
L'interno era piuttosto spoglio, quasi disadorno. Geltrude, vestita
di bianco, sedeva in una poltrona dall'alto schienale. Appariva bellissima,
ma nei suoi occhi l'artista colse un sentimento che mai vi aveva scorto
prima: il terrore. Geltrude guardava fisso un angolo lontano della
stanza in cui lui, entrando, non era riuscito a distinguere nulla.
Poi lo vide: un gatto, uno splendido animale grigio argento tigrato
di nero dominava quella superba col suo magnetismo. Aveva occhi verdi
e un'aria di controllata attesa.
"Perché provate tanta paura di questa bestia?" domandò
Cosimo.
La donna trasalì. Non l'aveva udito entrare.
"Che idea! Io non ho paura di nessuno" rispose e, nel parlare,
un leggero tremito della voce tradì la menzogna.
"È vostro il gatto?"
"Certo che è mio. Cioè intendo dire che adesso
è mio. Apparteneva a Caterina, sapete, la ragazza uccisa. Pare
che nessuno ne volesse aver cura e così Alfonso l'ha affidato
a me. In realtà non amo i gatti. Credono di sapere troppe cose;
sono creature subdole e presuntuose."
"Potrei dipingervi mentre lo tenete in braccio: il contrasto
dei colori, delle linee sarebbe di grande effetto. Bellezza accostata
a bellezza
È un animale con sfumature insolite. Come si
chiama?"
"Cenere. Si chiama Cenere. No, l'idea non mi piace. Desidero
un ritratto che mi dedichi tutta la vostra attenzione. Sarà
il mio dono di nozze ad Alfonso."
Cosimo si diresse verso Cenere: desiderava osservarlo meglio. Si accovacciò
accanto a lui e incominciò a parlargli con dolcezza, grattandolo
prima sulla testa di velluto e poi sotto il mento. Il gatto lo guardò:
due occhi di limpida giada gl'inviarono messaggi teneri, percorsi
tuttavia da ammonizioni severe e disperate e l'uomo avvertì
che una profonda corrente di complicità lo stava unendo a quell'animale
insolito che, non con le fusa, ma con una più silenziosa e
profonda offerta di sé aveva risposto alle sue carezze. Lo
colse un presagio di smarrimento e rimase qualche attimo pensoso.
"Come volete" disse infine, indugiando ancora con la mano
nel fitto pelo del nuovo amico. "Naturalmente farò come
desiderate. Eppure, insieme a lui, perfino una bellezza come la vostra
sarebbe apparsa più radiosa."
L'esecuzione del ritratto richiese tempo e pazienza: Geltrude non
era tranquilla. Una pena l'agitava, nascosta sì, ma tale da
riflettersi sul volto a scalfirne la perfezione di statua. Un giorno
si mostrava felice, quasi spensierata e gli occhi erano laghi di azzurra
trasparenza: il pittore ne fissava sulla tela le linee inalterate,
lo sguardo purissimo, il sorriso dischiuso sull'incarnato di magnolia,
ma la mattina successiva tutto il lavoro risultava da rifare: Geltrude
era un'altra donna, una sconosciuta crudele, chiusa in un cerchio
di sconfinate lontananze da cui nessuna voce poteva richiamarla. Cosimo
creava e distruggeva, sicuro che la fatica non avrebbe mai avuto fine.
Talvolta la sera, dopo tante ore trascorse al cavalletto cercando
di fissare quei tratti che in lei erano sempre fuggitivi e provvisori,
veniva preso da un totale scoramento e l'assaliva la tentazione di
abbandonare quell'opera che, prima in tutta la sua esistenza di artista,
gli pareva impossibile portare a termine. Ma repentino un bagliore
nelle pupille femminee lo inchiodava a una ricerca più intensa,
e mescolava terre e pigmenti, sfumava e contrastava, tentava le infinite
vie dei più azzardati cromatismi per riprodurre almeno una
parvenza della creatura che, indifferente a tanto scompiglio portato
nell'animo di lui, gli sedeva davanti, specchio mutevole di un animo
trascinato da mille intemperanze tacitate nell'involucro di un gelido
riserbo.
Cenere assisteva a tutte le sedute. Stava nel suo angolo da cui non
si muoveva quasi mai. Cosimo aveva scoperto che solo lui poteva toccarlo:
gli altri, Geltrude compresa, non si azzardavano a farlo, ma se talvolta
gli si accostavano il gatto subito si allontanava. A parte questa
bizzarria, sembrava un animale assai tranquillo: osservava con attenzione
le evoluzioni del quadro e i suoi immancabili regressi. Un'ironia
impalpabile brillava nei verdi occhi spalancati nella contemplazione
quasi mistica di una realtà che a lui doveva apparire risibile.
Eppure Cosimo covava l'assurda convinzione che al gatto stesse in
qualche modo a cuore l'esecuzione del dipinto: glielo leggeva nei
fremiti delle vibrisse che facevano da contrappunto ai propri successi
col pennello, nella tensione delle zampe che commentava immancabili
scoramenti, nel drizzarsi delle orecchie alla fine di ogni seduta,
quando controllava i risultati raggiunti. E, in maniera del tutto
irrazionale ma non per questo meno autentica, l'uomo si era accorto
che, da Cenere, si attendeva un giudizio e desiderava che fosse positivo.
Geltrude parlava pochissimo. Rare frasi, monconi di parole vaganti
nell'aria come frange inconsistenti di ragnatele incrinavano il silenzio
del locale dove la ricerca del pennello a tentare nuovi esiti era
rumore, e rumore assordante. Dopo quelle lunghe giornate, Cosimo era
inebriato di solitudine e di un totale senso di inconsistenza; solo
una carezza a Cenere e la muta approvazione dei suoi occhi rotondi
servivano a ristabilire il contatto con la realtà, a vanificare
i dubbiosi incubi che lo incalzavano da vicino, a far scorrere di
nuovo sangue e linfa nei suoi arti irrigiditi nella paralisi della
fatica e dello sgomento.
Si arrivò a giugno. Il calore della primavera avanzata contagiava
col presagio dell'estate perfino il vasto prato esangue che ormai
Cosimo attraversava con indifferenza. Cenere perdeva il pelo: l'angolo
dove abitualmente soggiornava appariva disseminato di mille serici
frammenti della sua pelliccia. Il muso gli si era fatto più
affilato e talvolta i verdi occhi di cristallo tradivano frementi
crudeltà di dei inappagati.
Lentamente il ritratto progrediva: il volto era adesso fissato nella
propria tersa luminosità, consegnato per sempre all'ambiguo
gioco dei sentimenti contrastanti in lotta sotto lo smalto della pelle
levigatissima.
Nessuna confidenza si era stabilita fra la modella e il suo artista
: la donna, reclusa in un proprio mondo inaccessibile, permeato di
asprezze e turbamenti, aveva alzato una barriera tanto profonda fra
se stessa e Cosimo che lui, gradatamente, aveva perso l'interesse
amoroso dell'inizio, conservando solo la curiosità per il soggetto
difficile e sfuggente. Curiosità e interesse che nulla possedevano
di affettuoso. Un tenero affetto, viceversa, aveva finito per legarlo
a cenere da cui si sentiva contraccambiato e, poiché la padrona
non si curava per niente del gatto, aveva progettato di chiederlo
come compenso del suo lavoro.
Le nozze erano fissate per il 21 giugno. La sera del 20 Cosimo dette
l'ultima pennellata al dipinto: l'indomani, a cerimonia avvenuta,
l'avrebbe mostrato agl'invitati, allo sposo, a Geltrude stessa che,
di buon grado, si era adeguata alla richiesta di non vederlo finché
non fosse stato finito. Un'occhiata finale ai dettagli gli confermò
l'eccellenza del lavoro: perfetta la somiglianza di quel volto che,
per sua natura, nemmeno in se stesso poteva trovare uno specchio fedele,
acuta la penetrazione di quel carattere saturnino, realistici i colori
in tutte le loro sfumature. Sì: poteva dirsi soddisfatto, a
patto, naturalmente, che lo fosse anche Cenere. Sollecitato a esprimere
un giudizio, il gatto descrisse un ampio cerchio attorno al cavalletto,
levò in alto la bella testa come per respirare in regioni più
elevate, allargò le rosee narici e, per la prima volta, dapprima
deboli e poi ronfanti e beate, fece le fusa. Strane fusa, accompagnate
da un nodo di non sciolta crudeltà nello sguardo lanciato a
Geltrude che, col peso di mille noie, si stava alzando dalla poltrona
in cui si era seduta per tanti, lunghi giorni consecutivi.
"Il quadro è terminato, signora. E vi rende giustizia:
forse vi ha derubata di un po' della vostra bellezza per fissarla
sulla tela, ma non me ne vorrete: ne possedete in abbondanza. "
"Siete molto galante. Sono sicura che il dipinto è ben
eseguito e domani ne avrò la conferma. Amerei vederlo adesso,
ma vi ho dato la mia parola e non lo guarderò se non domani,
insieme agli altri. Consentitemi per il momento di ritirarmi: mi attendono
una notte pensosa e una giornata lunghissima."
Cosimo s'inchinò e, presa una mano di lei per portarla alle
labbra, rabbrividì al suo gelo, subito notando un accenno di
panico negli occhi pervasi da un chiarore dilagante che, da azzurri,
li faceva bianchi, come d'opale. Forse, con un gioco di luci e d'ombre,
il bagliore delle candele aveva simulato, nel volto appassito di lieve
fatica, una debolezza da cui Geltrude risultava immune. Forse.
Con un telo rosso coprì il ritratto ormai asciutto, non avendo
ricevuto, quel giorno, che un'ultima pennellata simbolica. Una carezza
a Cenere, accompagnata dalla tacita promessa di un futuro insieme,
suggellò l'ultimo atto della scarna cerimonia. Fuori, nella
notte, la luna pesava sugli uomini, appesa a un filo di remota consistenza.
La mattina successiva un sole lucente risvegliò nei capelli
di Geltrude l'oro occorso a comporre la trama di delicate ondulazioni:
mai si era vista sposa più inquietante nella propria avvenenza.
Vestita di pallido viola, avanzava sola nella severa navata della
cappella di famiglia dove gl'invitati, divisi in due ali policrome
e stupefatte, impallidirono al suo ingresso, come per un sentore malsano,
subito attribuito alla scelta del colore livido, inconsueto per la
festa e le occasioni gioiose. Non indossava monili, eccetto un'ametista,
pietra delle regine, che spiccava alla mano destra, sommando altro
viola in insistente, eccessivo accoppiamento.
In attesa davanti all'altare, lo sposo appariva soggiogato: piacevole
nell'aspetto e nella foggia del giustacuore di broccato avorio intessuto
in una gamma di toni via via più scuri, fino al bronzo , e
con le gambe ben proporzionate chiuse nella guaina delle brache chiare,
pur nella sua eleganza sottolineata da un'antica spilla di topazi
e zaffiri, raro gioiello di famiglia poggiato sulla nitida striscia
di pizzo che gli cingeva il collo, Alfonso spariva al confronto della
donna che presto sarebbe divenuta sua moglie.
Per desiderio di Geltrude la cerimonia fu breve, accorciata da un
cenno imperioso al prete che aveva visto nascere quella donna perdutamente
lontana dai sorrisi dell'infanzia ed era stato confessore della madre:
non osava, il pover'uomo, opporsi ai capricci della marchesa per timore
che lei prendesse in disdegno la Chiesa e il Signore stesso.
Al termine della cerimonia, infranta la barriera di gelido umidore
che sovente impregna le case di dio, il calore dell'estate accolse
in un caldo abbraccio e invitati e sposi. Per condurre Geltrude al
centro della proprietà, dove il prato sconfinato si elaborava
in parco, proprio nel punto in cui, sotto grandi tendoni, era stato
allestito il banchetto di nozze, si trovava in attesa una cavallina
bianca adorna di fiorite ghirlande, lipizzana di razza fatta venire
appositamente dagli allevamenti prossimi a Trieste. Dietro la marchesa
che procedeva sulla sua cavalcatura condotta per la briglia da un
estatico Alfonso, si snodava un lungo corteo. Già assaporava
ognuno la dolcezza appagante delle glasse, degne coperture di arrosti
ed esotiche vivande, il nettare dei vini, l'armonia di impasti e farciture.
E, mentre il caramello evocato in colature ambrate, insieme al palato
faceva sciogliere l'animo dei più cauti, molti avevano già
scordato l'ansia che in chiesa li aveva condotti sul filo di un inspiegabile
timore.
Brindisi e ovazioni coronarono di ambrosia e poesia spicciola una
festa ch'ebbe lunghissima durata. Gl'invitati e lo sposo parevano
felici, ma Cosimo avvertiva la stanchezza lacerargli le ossa e la
nausea afferrargli lo stomaco. Quasi certo che Geltrude provasse il
medesimo disagio, l'inquisiva con lo sguardo, a ricordarle ch'era
giunto il momento di mostrare a se stessa e agli altri il ritratto
che lui aveva faticosamente, puntigliosamente dipinto.
L'invito, con l'esortazione che conteneva, fu percepito dalla donna.
Stanca, si sentiva molto stanca: suo unico desiderio era mettere fine
a quella giornata di cui detestava la festosità vociante, quasi
plebea. I volti accaldati, i capelli lucidi di sole e di sudore le
procuravano un intenso disgusto. La gioia per lei si riduceva a una
ragnatela d'oro sospesa nell'aereo vuoto del buio più silenzioso:
piccola trama di luce che un soffio basta a infrangere. Odiava il
chiasso e l'allegria: portava in sé il peso e lo splendore
di una meravigliosa solitudine. Il ritratto in fondo non la incuriosiva:
conscia della propria bellezza, come Narciso trovava in essa il massimo
appagamento, non all'esterno, però, nell'illusorio gioco di
ombre proiettate nell'infinita spera, bensì confrontandosi
ogni istante coi tanti frammenti che costituivano l'immaginario della
sua mente: poco la interessava il resto delle effigi. Occorreva comunque
sigillare la giornata con l'atto conclusivo e tributare qualche onore
a Cosimo. Si volse quindi verso Alfonso che sedeva al suo fianco e
gli sussurrò poche parole all'orecchio; poi si alzò
in piedi.
"Amici" disse " desidero adesso farvi vedere qualcosa
che ho deciso di regalare al mio sposo come dono simbolico per le
nozze." E ancora si girò e sorrise al compagno con i tersi
occhi azzurri, con la bocca dischiusa, con il volto intero in cui,
per la prima volta manifesta, balenò la scintilla dell'amore.
In quell'attimo Cosimo pensò che mai l'aveva vista splendere
così e si convinse che il dipinto era sbagliato, tutto sbagliato.
Dov'era la donna imperiosa e lucida che aveva forzato la sua mano
sulla tela? Dove il volto inquieto e perduto? Dove il silenzio che
l'annegava? Il viso di Geltrude come ora appariva era una sinfonia
di felicità. Eppure, l'avrebbe giurato, solo pochi minuti avanti
gli aveva fatto l'impressione di essere esausta dalla noia e indifferente
anche ad Alfonso. Imprigionare in un'unica forma un simile soggetto
significava ridurre la poliedricità all'uniformità e
alla monotonia: misera soluzione dell'arte!
Nel frattempo, sollecitati dalla loro ospite, gl'invitati si erano
alzati; qualcuno, informatosi sulla natura del dono, non nascondeva
il desiderio di vedere il dipinto.
"Pensate che neanch'io l'ho visto" spiegò lei. "Cosimo
Gualfredi ha preferito così e io ho rispettato la sua bizzarria
d'artista."
Si girarono tutti a osservare il pittore e lui si sentì quasi
ridicolo, certo capriccioso per aver preteso tanto. Non spiegò
nulla; si limitò a sorridere pensando che l'attesa imposta
a Geltrude si poteva in parte spiegare come una vendetta contro quella
sua indifferenza, pensata e trascinata fra gli uomini da un universo
sconosciuto.
Quasi tutti si erano ormai incamminati verso il padiglione, del resto
poco lontano. Gli sposi procedevano avanti, lei con un calice di vino
in mano, colmo per l'offerta a invisibili visitatori.
Notò Cosimo, nel momento in cui giunsero alla porta, che le
dame, convenute in numero esiguo, si scostarono quasi a evitare una
corrente di gelo che le investisse; qualche pizzo, ornamento malizioso
sui seni, o ai polsi, appena all'inizio di mani educate alle carezze,
tremò, agitato da un vento inesistente nella placida giornata
estiva.
Geltrude spinse il battente e penetrò nella stanza. Gli altri
la seguirono: il brusio dell'eccitazione si era spento in una sospensione
timorosa. La luce velata dalle tende di lino bianco concesse benefico
refrigerio agli sguardi; anche Cenere che si alzò sbadigliando
apparve gradevole, tutto d'argento pacato dopo la luminosità
accecante di fuori.
"Suvvia, Geltrude, che cosa aspetti? Non farci più tribolare"
la esortò quell'amica che componeva versi. "Mostraci il
ritratto: così potremo constatare se il nostro Cosimo è
davvero all'altezza della sua fama. Il dipinto che fece alla Dianora
era assai bello e le procurò un marito, ma con te occorre una
maestria senza pari
"
"È vero, signora, s'intromise il Gualfredi. "E io,
che pure fino a oggi mi sono ritenuto abile nella mia arte, questa
maestria temo di non possederla. Del volto della marchesa - su cui
il mio pennello è tornato più volte per catturare espressioni
mai in accordo fra loro - ho colto forse un aspetto, un sublime momento,
ma non la variegata , scintillante poliedricità che lo anima."
"Non siate troppo modesto, Cosimo" replicò la poetessa.
"Siete troppo giovane per appagarvi di voi stesso. Giudicheremo
noi del vostro lavoro."
Un folto gruppo, compatto e pressante, s'era stretto intorno alla
sposa e, ai piedi di lei, Cenere, avvicinatosi in silenzio, palesava,
col pelo insolitamente irto, l'impazienza dell'attesa.
"Anche tu vuoi vedere il quadro, mio bel micio?" domandò
Alfonso, prendendo il gatto in braccio e sollevandolo all'altezza
del dipinto. "Adesso ci siamo proprio tutti. Geltrude, ti prego,
solleva il telo che l'offusca e rivelaci una ancora delle tue bellezze."
Lei, la mano tremante, alzò un lembo del tessuto rosso , sudario
scarlatto che celava il simulacro: l'angolo in basso a sinistra le
mostrò il colore familiare dell'abito che aveva indossato durante
le prove. Parve rassicurata: con gesto rapido strappò via il
tessuto lacerandolo sulla cornice che lo trattenne un istante. Una
frazione di silenzio seguì la visione repentina, poi un urlo
lacerò l'aria e si cristallizzò in spade d'impalpabile
ferocia: non Geltrude dominava l'inerte materia della tela, ma Caterina,
fanciulla innocente con gli occhi morti e la testa mozzata sul sigillo
di un coagulo di sangue, così come l'aveva rinvenuta quel medesimo
gruppo di amici nella notte di orrore mai dimenticata.
Alfonso parve barcollare: Cenere balzò dal suo abbraccio inerte
precipitandosi su Geltrude e, con le lame delle unghie cresciute in
pause di smisurato ozio, le profanò il viso superbo. Quindi,
velocissimo, corse via dalla porta rimasta aperta, ma non per fuggire:
una sfida brillava nei suoi occhi. Lei comprese e accettò l'invito
a una corsa sfrenata: il gatto avanti e la donna dietro, volavano
per il prato caracollando in direzioni sconnesse, secondo la guida
impressa dall'animale. A un tratto però Cenere sembrò
diretto da un'idea precisa: ripercorse tutto il lato di fronte alla
facciata del palazzo e infine curvò bruscamente sulla sinistra.
Geltrude gli era dietro, scarmigliata, con i capelli d'oro che il
sudore aveva intrecciato in sottili cordicelle di bronzo, ferita,
quasi cieca dal sangue che le colava sulla faccia. Il baratro, volto
agli ameni richiami della città, si spalancò davanti
a lei che non lo vide: la sua caduta fu un tragico degradarsi dinanzi
ai pertugi e ai finestrini dei servi, tutti affacciati per scoprire
la causa del rumore. Nel precipitare, la chioma bionda si spalancò
come una medusa e, pietosa, nascose i lineamenti disfatti, l'orgoglio
sconfitto, la paura della morte, breve, in quell'atto, come un battito
di ciglia.
Cenere s'era fatto da parte e ronfava tranquillo, leccandosi i polpastrelli
feriti nella corsa. Voci e suoni vicini gl'indicarono che gli altri
stavano arrivando. Doveva nascondersi finché Cosimo non fosse
rimasto solo. Perché lui sapeva che Cosimo, quando tutti avessero
pianto e pianto e poi se ne fossero andati sempre piangendo, sarebbe
rimasto per cercarlo. Lui sapeva. E anche Cosimo
Da "Il Crisocomio", Firenze, Centro Editoriale
Toscano, 2002.